Biennale next edition
Republic of Common Ground, e al bando i localismi nei padiglioni nazionali. Sembra nascere sotto il segno dell’interscambio e dell’ospitalità fra stati e culture la grande mostra veneziana prossima ventura. La stanno trasformando così alcune entità geo-politiche di spicco in area europea. Vice versa, il padiglione italiano…
Tra prestiti o scambi di padiglione (Francia, Germania), tra scelte di artisti non autoctoni e nomine di commissari e curatori di padiglioni nazionali con passaporto estero (gettonatissimo quello italiano), la sezione delle partecipazioni per nazioni della 55. Biennale di Venezia sta cambiando volto. Sembra finalmente avviata al superamento del ruolo di espressione rappresentativa di ciascun ambito socio-territoriale. Eccezion fatta per il Padiglione Italia, beninteso, che insisterà sul must della tradizione. Come è noto, il curatore Bartolomeo Pietromarchi ha annunciato di voler configurare – con un appiglio metodologico tratto da Giorgio Agamben, uno dei nostri più complessi filosofi contemporanei – un quadro paradigmatico sulla specificità dell’arte italiana.
Per contro, non che non piacciano più i padiglioni dei singoli stati, tutt’altro. Si può ipotizzare che stiano acquisendo un nuovo significato proprio nello svincolarsi da un contesto chiuso e da un concetto di pura autonomia. È innegabile che concrete forme di scambio inter-culturale non possano che favorire dinamiche imprevedibili quanto desiderabili. Se l’abolizione dei padiglioni nazionali, postulata qualche decennio fa e motivata da un anacronismo di fondo nell’era della comunicazione globale, avrebbe di colpo smantellato la peculiarità della kermesse veneziana, mettendone forse a rischio l’esistenza stessa, l’indirizzo che ora si sta profilando sembra ridare spessore al tutto. Quella in atto è semmai una strategia tesa a non dimenticare lo spirito originario della prestigiosa Biennale veneziana, con in più la possibilità di nuove articolazioni comunicative, nuovi intrecci a-simmetrici, per così dire, o, se si vuole, nuovi impulsi esplorativi di mondi possibili. Guarda caso, non s’intitolava forse Common Ground la 13. Biennale d’Architettura di David Chipperfield conclusasi tre mesi fa? Sembra esserci continuità e dialogo, ora, con Il Palazzo Enciclopedico a firma dell’“architetto” Massimiliano Gioni, direttore della prossima Biennale d’Arte. Tema, appunto, a cui sembrano far riferimento con coerenza le scelte di certe rappresentanze nazionali.
Esemplare il caso Austria. Seppure in modo alquanto defilato, non si sottrae a questa visione trans-nazionale, avendola opzionata forse per prima con la nomina, già a fine 2011 (puntualmente segnalata da Artribune), dell’inglese Jasper Sharp quale proprio commissario/curatore. Evento neppure del tutto nuovo per l’Austria stessa, giacché, in occasione della 12. Biennale di Architettura, anno 2010, aveva designato quale commissario del proprio padiglione l’americano Eric Owen Moss. Aggiungiamoci però che ora il britannico Sharp ha chiamato a sé, è vero, un artista austriaco, ma uno dall’accento californiano in quanto da lungo tempo residente e operante a Los Angeles. Un non notissimo Mathias Poledna (1965), che a Venezia costituirà una rivelazione per molti. Un outsider fuori dal coro, insomma, e tanto meglio così: quanto a interesse, il gioco sta funzionando.
In effetti, riguardo a questo artista di rientro dalla California, e nell’attesa dell’evento veneziano, la Secessione viennese si appresta ad allestire una retrospettiva (dal 27 febbraio al 21 aprile) come tappa d’avvicinamento al suo modus operandi, fatto prevalentemente di installazioni video, rivolte ad esaminare forme e paradossi in cui si manifesta e si articola la modernità: dall’arte visiva all’architettura e il design, al linguaggio cinematografico, eccetera. Ma bocche cucite sul progetto veneziano.
Franco Veremondi
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