Dal mulino alla stamperia. La storia di Tucci Russo
Sperone (Torino-New York), Mazzoli (Modena), Sargentini (Roma), Marconi (Milano). La geopolitica galleristica d’Italia si va pian piano delineando nella grande storia raccontata da Artribune attraverso la voce dei galleristi storici della nostra penisola. Ora il testimone passa a Tucci Russo: da direttore della galleria di Gian Enzo Sperone a Torino fino all’esodo a Torre Pellice.
Perché l’arte?
Tutto questo fa parte di una mia conduzione di vita e anche di scelte fatte in età giovanile. A partire dai 19-20 anni ho cominciato a sensibilizzarmi a vari ambiti, dalla politica alla cultura, dalla letteratura alla poesia. A quell’epoca frequentavo un gruppo di amici che si occupava di cultura e politica.
Chi erano costoro?
C’era ad esempio un noto economista, Giulio Sapelli, Paolo Mussat Sartor, Renato Ferraro… Andammo in massa a iscriverci alla FIGC in corso Francia. Fummo delegati in una sezione importante, il Secondo Circolo Gramsci, dove c’era una frequentazione di giovani intellettuali e politici.
Com’era Torino in quel periodo?
Una città che aveva una frequentazione intensa di intellettuali, artisti, musicisti, teatranti… Girando per il cuore cittadino – che allora gravitava intorno all’Unione Culturale, al Teatro Stabile, alla Galleria Sperone… – avvenivano incontri che ti aiutavano a crescere.
Il tuo primo amore non è però l’arte…
Il primo attraversamento è di scrittura, di poesia, insieme a un gruppo di amici con il quale fondo, nel 1964-65, una piccola casa editrice underground che si chiamava Pitecanthropus. La grafica era curata da Angelo Pezzana, fondatore del movimento omosessuale e proprietario della libreria Luxemburg, che allora si chiamava Hellas. Fummo addirittura processati per oscenità, e divenne un processo pubblico, nel senso che ne parlarono i giornali… Nel gruppo c’erano anche Are Vasco, Gianni Milano e Paolo Cerrato.
C’è stato un transito anche nei gruppi extraparlamentari?
Sì, per un periodo ho frequentato l’ambiente di Potere Operaio, però tenendomi sempre libero. Mi interessava il dialogo. Ma ancora durante il ’68 la mia partecipazione è stata molto attiva. Per dirti: quando apro la galleria, dopo l’esperienza con Sperone, lo faccio in società con Paolo Marinucci, che è il primo arresto per l’occupazione di Palazzo Campana.
Ci avviciniamo così al discorso sull’arte. Com’era quell’ambiente?
Uno dei punti centrali della città era il Bar Mulassano: lì si incontravano Mario Merz, Giovanni Anselmo o Gilberto Zorio. Ma magari ti imbattevi in Carmelo Bene che era venuto a Torino per fare il Don Chisciotte. E poi c’era il Living Theatre, che qui era di casa… Un altro avvenimento molto importante per noi fu l’incontro con Allen Ginsberg.
C’è mai stato un contatto reale fra ambito politico e artistico?
Poco dopo il mio ingresso da Sperone, tentai di creare un rapporto fra Lotta Continua e gli artisti dell’Arte Povera. Ci fu una riunione a casa di Mario Merz con Giulio Paolini, Emilio Prini e gli altri artisti, e poi Germano Celant, Luigi Bobbio, Laura De Rossi. Fu interessante il dialogo ma non se ne venne a capo: le posizioni erano troppo diverse. Questa situazione di avanguardia politica non riusciva a capire che, in fondo, l’espressione creativa era come il pane quotidiano anche all’interno di una situazione politica.
Pesava la connotazione operaia della Torino-Fiat?
In realtà era più semplice. La posizione era: voi artisti producete, ma sono solo i borghesi che possono comprare. È una coglionata! Se pensi ad esempio all’Igloo di Merz, è un’immagine scomoda per un salotto borghese, è un’immagine nuova, direi rivoluzionaria. Tutti gli artisti dell’Arte Povera, in realtà, erano in una fase di ristrutturazione del linguaggio artistico, e i militanti politici di allora non riuscirono a leggerlo.
Quando si chiude per te la fase politica?
Alla fine del ’68. Sperone stava trasferendo la galleria da via Cesare Battisti in corso San Maurizio, dove poi avvennero le cose più straordinarie. Mi chiese se fossi interessato a lavorare con lui, e così diventai il direttore della galleria.
Cosa succede da Sperone in quegli anni?
Facciamo ad esempio la prima personale di Carl Andre a Torino, una mostra molto importante. Avevo la possibilità di seguire in diretta la creazione di queste esposizioni, anche se allora parlavo – come adesso d’altronde! – un inglese un po’ maccheronico. Ero stranito nel vedere come Andre avesse ordinato un certo tipo di materiali: questo minimalismo che diventava scultura era qualcosa di incredibile e affascinante. Ho vissuto cinque anni molto intensi fra crescita dell’arte italiana e approdo in città del mondo internazionale. È stata una università notevole, perché si entrava nel magma vero del tessuto creativo.
Con quale artista hai avuto più rapporti?
Con Sol LeWitt c’è stata una meravigliosa amicizia. Già dal 1970 mi diceva: “Perché non apri una galleria?”. E quando aprii, nel 1975, mi mandò una cartolina da Pompei con un disegno dietro, scrivendo “Good luck. Sol”. La conservo ancora. Anche con Gilbert & George… Erano tosti: già al mattino alle 10 iniziavano a bere gin & tonic e si arrivava al pomeriggio belli cotti! E Bruce Nauman? Personaggio fantastico…
E dal punto di vista strettamente artistico?
L’idea di opera d’arte fine a se stessa non c’era. Era qualcosa di nuovo, non c’era più l’oggetto. L’idea dell’installazione aveva distrutto il prodotto. Il concetto era diventato l’opera in senso totale.
Quando si conclude l’esperienza da Sperone?
Nel 1974. Erano state fatte cose straordinarie, ma stavo assistendo a una sorta di decrescendo. Il fatto è che allora Sperone lavorava con trentacinque artisti: tutti di grande qualità, ma se conti che facevamo almeno dieci mostre all’anno, di italiani se ne facevano forse due… Secondo me si privilegiava troppo l’internazionalità a scapito della situazione italiana. E intanto Sperone era cambiato: era sempre in giro e si stava trasformando da gallerista a mercante, per cui aveva obblighi finanziari di un certo tipo, il che lo portava a curare molto meno l’aspetto culturale della galleria.
Com’era la comunità degli artisti italiani?
Era come una grande famiglia che si incontrava. C’era una competizione sana, perché si dialogava sul lavoro. Anche con Roma, con Fabio Sargentini, c’era una competizione positiva, uno scontro dialettico. Però Sperone a un certo punto decide di lasciare un po’ indietro questa situazione, che non aveva certo i favori del mercato. Per dire, Panza comprava gli americani, e tutto il resto era un po’ bloccato.
È così che si consuma la rottura?
Siamo alla fine del 1974. Fra me e Sperone si erano creati degli attriti e allora gli dico: “Io vado via dalla galleria e ti annuncio che ne aprirò una per i fatti miei”.
Reazione?
Violentissima! Tanto che poi mi fece una guerra feroce… Dopo varie discussioni, anche con la mediazione di Pierluigi Pero, che era suo socio, Sperone mi diede una piccola Jackie Kennedy di Andy Warhol, che io vendetti per 6 milioni di lire a un collezionista torinese. Diedi la metà a Sperone e il resto era la mia liquidazione. Con quei soldi, nel 1975 apro la mia galleria insieme a Paolo Marinucci con una mostra di Calzolari, e già spendo una barca di soldi! Era una cosa folle.
Che ruolo aveva Marinucci?
Volevo che all’interno della galleria ci fosse qualcuno che avesse una funzione di critico. Volevo cioè unire alla mia immagine ed esperienza fatta da Sperone anche una funzione di creatività critica, per dare una marcia in più alla galleria dal punto di vista culturale.
Quanto dura questa joint venture?
Un anno, perché Paolo ebbe dei problemi di salute.
Dunque, cominci con Pier Paolo Calzolari.
Sì, proprio perché nel lavoro di Calzolari c’era un aspetto globale, ampio che riguardava anche il lato performativo. Se Kounellis ha sempre delegato all’arte anche una funzione politica, di potere all’interno del sistema, in Calzolari c’era una forte componente poetica. Poteva cioè contrastare e dialogare con il lavoro di Kounellis in maniera interessante, perché anche nel lavoro di Kounellis c’era un aspetto performativo nei primi tempi. Facciamo così la prima mostra con opere dal 1966 al 1971.
Dov’era la galleria?
Vicino al Parco del Valentino, in via Fratelli Calandra. Era un garage di 250 mq. Fra l’altro, con Calzolari presentiamo il lavoro che alla famosa mostra dello Stedelijk di Amsterdam [Op Losse Schroeven. Situaties en Cryptostructuren, 1969, N.d.R.] era rimasta allo stato progettuale, il lavoro del boxer albino con gli occhi rossi, con tre blocchi di ghiaccio rosa che si sciolgono.
Dopo cosa succede?
Grazie a Calzolari conosco Marco Bagnoli, che aveva fatto una prima mostra da Paola Betti a Milano. Mi aveva molto interessato e così facciamo una mostra in due parti, a Torino e a Pescara da Lucrezia de Domizio. In quel modo conosco anche Remo Salvadori, che a Torino aveva già esposto con Franz Paludetto, e con Salvadori faccio la mia terza mostra. Questo gruppo toscano comprendeva anche Sandro Chia…
Prima però ti sposti…
Sì, alla fine del 1975 vado in corso Tassoni, al Mulino Feyles, il primo mulino industriale di Torino. Un edificio storico che ospitava la mia galleria, ma anche lo studio di Mario e Marisa Merz, e per due anni quello di Calzolari.
Con chi inauguri?
La prima mostra che faccio è di Sandro Chia. Mi interessava l’aspetto poetico che si sviluppava metaforicamente nello spazio attraverso le opere: Chia scrive infatti due poesie, quello dell’asinello e dell’asinella e una seconda che si intitola La spada e il culo, e tutto questo si traduceva in opere nello spazio.
Frequenti gli artisti dell’Arte Povera, lavori con Sandro Chia… E i rapporti con Celant e Bonito Oliva?
Non dimentichiamo Tommaso Trini, un uomo con il quale ho dialogato a lungo; lui aveva fondato una rivista che si chiamava Data e venne a intervistarmi quando aprii la galleria.
Con Celant ho sempre avuto un buon rapporto. Ricordo di averlo incontrato a Genova in occasione di una mostra di Chia; gli dissi che c’era una situazione nuova che stava apparendo all’orizzonte e che meritava forse attenzione, ma non ci fu risposta. Sai, Germano non ha mai promosso giovani artisti, è sempre stato un assemblatore. Anche con l’Arte Povera, ha creato un grande archivio, ha utilizzato i testi degli artisti… In questo senso, forse ha creato una figura nuova di critico.
E con Bonito Oliva?
Ci conosciamo benissimo, ma sai, io non sono mai entrato in un vero e proprio dialogo, perché il rapporto che avevo con gli artisti era così preciso ed esaustivo che la figura del critico era quasi non necessaria.
Cos’è un gallerista secondo te?
È un confessore. Ha una funzione di dialogo e soprattutto di ascolto di quello che l’artista gli racconta e gli propone; filtra tutto e lo segue, lo segue molto attentamente, come un cordone ombelicale. È veramente uno scambio continuo di informazioni: quando dialogo con un artista, intervengo anche con le mie conoscenze, pur senza mai contraddire, perché la creatività deve avere un campo assolutamente libero.
Se viene a mancare questo scambio, ti isoli dal lavoro che fai e resta soltanto il nome dell’artista e il prezzo. E questo non fa parte della mia vita. Detto ciò, il mercante ha una funzione ben specifica, e anche utile all’interno del mercato, io non sono un moralista…
… ma è un altro lavoro rispetto a quello del gallerista.
Esatto, è un altro lavoro: l’importante è che le singole professionalità vengano rispettate. Dev’esserci un equilibrio fra la situazione di mercato e la funzione culturale. Tu hai visto come il mercato è diventato preponderante rispetto alla qualità dell’arte; è diventato troppo importante. D’altra parte, se l’economia domina la politica…
Altra presenza ingombrante è quella delle fiere.
Le fiere sono diventate un luogo in cui presenziare, e se non sei presente sei tagliato fuori. Però non ci sono opere per tutte le fiere, non posso chiedere agli artisti di produrle ex novo. Noi dobbiamo portare quello che è stato prodotto nella sede madre, che è la galleria! L’artista non può essere una fabbrica, anche perché sennò snatura il proprio lavoro: nella misura in cui comincia a entrare in uno stadio produttivo molto ampio, non pensa più al concetto dell’opera, ma pensa alla capacità che ha lui di realizzare l’opera, per cui questa – poco per volta – si svilisce, assume sempre di più connotati decorativi e meno intensi, di ripetitività e di accademia. Per questo dico sempre che gli artisti devono avere momenti di pausa, non devono rincorrere il potere che il mercato vuole mettergli nelle mani. Quando qualche cosa funziona troppo, e il mercato lo pretende e lo vuole, devono avere la capacità di non produrlo più!
Per far questo ci vuole coraggio, e il sostegno – non solo economico – di un gallerista.
Ecco! È chiaro che poi l’ossessione di base di un artista è sempre e solo una e le sfaccettature sono mille. Però quell’ossessione devi farla diventare feconda, non puoi tradirla in un sistema di mera produzione. Devi scavare all’interno di quell’ossessione per vedere ogni volta quale luce nuova c’è al suo interno. Come sempre è una questione di coscienza e di come ti poni nei confronti del mondo.
È un discorso che stai facendo per l’artista, ma che mi pare calzi bene anche per il gallerista.
Questo non è un lavoro, è la vita! E la vita va gestita in maniera totale e armonica.
Cosa ne pensi del panorama galleristico attuale?
Io esco da una galleria, quella di Sperone, che è stata straordinaria, una grande eccellenza. E sono uscito perché volevo sostenere il lavoro dell’arte italiana. Io non sono una galleria che lavora in franchising, non sono un importatore di artisti stranieri di altre gallerie.
Non hai rapporti con qualche “giovane” collega?
Mi sarebbe piaciuto, ma non ne ho trovata nessuna con la quale dialogare. In tutti questi anni, una galleria che ha avuto una funzione interessante è stata la Neon di Bologna. Gino [Gianuizzi, N.d.R.] ha fatto un lavoro davvero importante.
Ho cercato di avere rapporti con qualche altra giovane galleria, a Milano ad esempio, ma è stata una delusione: speravo ci fosse meno presunzione e più voglia di mettersi a disposizione dell’arte. Ad esempio, la Galleria Zero… ha cercato di fare un certo tipo di lavoro, ma bisogna costruire una storia culturale, altrimenti sei una buona galleria con buoni artisti, e poi?
Torniamo al Mulino Feyles.
Qui a Torre Pellice arriviamo nel 1994 ma il Mulino lo lasciamo prima, nel 1990, e nei primi Anni Novanta andiamo in via Gattinara. Il Mulino è stato un luogo fantastico dove abbiamo fatto mostre importanti. E poi, avendo lo studio di Mario e Marisa vicino… C’era un dialogo continuo, Mario era una persona straordinaria; a volte arrivava da me e diceva: “Senti, non so se questo lavoro qui l’ho finito o non l’ho finito”. La trovo una cosa fantastica!
Al Mulino arrivano anche i primi stranieri…
Richard Long lo avevo conosciuto nel 1969-70, quando era venuto da Sperone a fare una mostra. Long per me è sempre stato un artista fondamentale e quando ho aperto la mia galleria è stato uno dei primi artisti a cui ho scritto.
E Tony Cragg?
Nel 1979 vengo invitato a una mostra a Stoccarda di giovani artisti emergenti, Europa 79. Io allora avevo già fatto una mostra con Chia e, proprio nel ’79, con Enzo Cucchi. Per cui vado a Stoccarda con il lavoro di Chia e Cucchi e lì vedo il primo lavoro di Tony Cragg, fatto con frammenti di plastica sul pavimento. Mi era piaciuto moltissimo! Farò con lui la prima mostra nel 1984, dopo le mostre da Franco Toselli a Milano e alla Saman Gallery di Ida Gianelli a Genova.
Ma com’era questo spazio espositivo?
Era lungo trenta metri e largo dodici! E poi c’era un altro spazio al piano superiore, quasi 200 mq, dove Mario aveva fatto il tavolo con la frutta e i giornali, una mostra epocale. Fare una mostra lì era impegnativo. Tant’è che, quando Cragg venne a Torino per vedere la galleria, si fermò tre ore e poi mi disse: “Guarda, devo ripartire, ho sbagliato completamente il progetto”. Fu una mostra magnifica!
Richard Long, Tony Cragg… E poi?
Io ho avuto un rapporto straordinario con Konrad Fischer e grazie a lui vedo le prime cose degli artisti tedeschi – Thomas Schütte, Wolfgang Luy e Klaus Jung – e faccio queste tre personali a Torino, facendoli esordire in Italia. Poi in una fiera organizzata a Firenze da Luciano Pistoi vedo da Sergio Casoli il lavoro di Alfredo Pirri, e così anche lui inizia a lavorare con noi.
E ora?
Una delle cose su cui siamo impegnati sono dei “percorsi”, come nel caso della mostra di Anselmo allestita in questi mesi o quella di Penone fatta in precedenza. Sono temi scelti all’interno del lavoro dell’artista, che mettono a fuoco alcuni elementi centrali dell’opera. La prossima mostra riguarderà il lavoro di Pirri.
Credo sia importante, intanto perché la memoria è corta, e poi perché bisogna offrire al pubblico delle informazioni che ricostruiscano un percorso. Quando in una fiera, ad esempio, puntualizzi più momenti di un artista, i veri collezionisti te ne sono grati, perché leggono la proiezione del lavoro.
Parliamo dei giovani artisti con cui lavori?
Gianni Caravaggio e Francesco Gennari sono artisti con cui mi relaziono molto bene perché rappresentano due proiezioni interessanti del lavoro sulla “scultura”. Sono continuazione e coscienza di un certo percorso precedente, ma non in maniera accademica, bensì come nuova soluzione. Sono artisti che hanno capito non solo gli Anni Settanta, ma anche gli Anni Ottanta: filtrano due momenti per andare in una nuova direzione.
C’è qualche altro giovane che ti interessa?
Mi piacerebbe trovare qualcuno che lavora con il linguaggio della pittura.
Parliamo di Robin Rhode.
Nel suo lavoro c’è una realtà che viene da una forza creativa interiore che è quella dello stomaco, della forza poetica, ma a volte è anche politica e provocatoria. Tanti linguaggi vi si mescolano: c’è l’aspetto performativo, c’è il disegno, c’è il cinema, c’è la danza… Tutte queste componenti entrano nel suo lavoro, ma mai con un processo di intellettualità.
Torniamo alla storia. Perché ti sposti a Torre Pellice?
Nel momento in cui scoppia la Guerra del Golfo, improvvisamente nel mondo dell’arte i telefoni non squillano più. La crisi dura parecchi anni. Una città come Torino, che in qualche modo è ancora una città operaia, si intristisce e tutto diventa molto complicato. Le spese in via Gattinara erano diventate insostenibili.
Noi vivevamo già fra Torino e Torre Pellice. Una mattina avevo un appuntamento in città e ho detto a Lisa, mia moglie: “Perché non vai a vedere se c’è un spazio in quel bell’edificio?”. E in effetti c’era uno spazio al pianterreno e due al secondo piano. Il giorno dopo sono andato a vedere anch’io, ci abbiamo riflettuto un quarto d’ora e ci siamo detti: “Ricominciamo daccapo!”. In tre mesi abbiamo ristrutturato tutto, tenendo nello stesso tempo lo spazio di Torino, che abbandoniamo successivamente.
Gli artisti come hanno reagito?
Ho spiegato la situazione. Long ha detto che sarebbe venuto a vedere lo spazio, Cragg mi rispose: “Dove vai tu, vengo anch’io!”. Una risposta meravigliosa! Cragg mi diede anche alcuni consigli su come articolare lo spazio al pianterreno. Apriamo con la mostra di Richard Long e a Torre Pellice vengono 700 persone per l’inaugurazione.
Abbandonare Torino ha avuto conseguenze?
La centralità è laddove trovi un interesse. Siamo a mezz’ora da Torino e chi viene qui può dedicare un certo tempo alla visita, magari la domenica. La galleria deve essere un luogo che protegge l’arte, una piccola chiesa all’interno della quale presenti l’arte con grande rispetto. Oggi l’arte è diventata qualcosa di troppo familiare da un punto di vista consumistico. Non c’è più Lorenzo de’ Medici, non c’è più Giulio II, spetta al gallerista essere, nel suo piccolo, un mecenate. E preservare l’arte. Quando aprii la prima galleria, con Paolo Marinucci scrivemmo un testo: Topos e anti-topos. La galleria dev’essere questo, un luogo e un anti-luogo allo stesso tempo, a seconda di come l’artista che vede quello spazio lo accetta o lo annulla.
Una concezione del genere comporta anche una certa disponibilità da parte del gallerista…
Al Mulino Feyles, Daniel Buren costruì cinque stanze in muratura: ci mettemmo due mesi a realizzare il tutto. Io non mi sono mai tirato indietro di fronte a questo tipo di proposizioni. Non si tratta di essere committenti di opere facilmente commercializzabili. Io ho sempre accettato quello che l’artista ha fatto per me. La prima istanza è mettere in piedi un progetto; la seconda è tentare la vendita. E negli anni ho venduto cose che sembravano invendibili!
Torniamo alla domanda iniziale: perché l’arte?
Bisognerebbe far sì che la gente si abituasse a vedere l’arte così come vede una pianta. È una estremizzazione, però è questo il punto. Perché sai, noi pensiamo di conoscere le piante, ma una pianta è una cosa complessissima.
L’arte è paesaggio.
Assolutamente sì! Infatti, anche la collocazione della galleria a Torre Pellice significa allargare il territorio, omaggiare la città anziché abbandonarla. Sembra un contrappunto, ma è così. Decentrare a volte fortifica, e poi – perché no? È quello che stanno facendo i francesi – si può ricreare centralità.
Mi sono occupato d’arte e di cultura in generale – per quanto si resti ignoranti fino alla fine dei propri giorni – per capire perché stiamo su questa terra. E l’artista è quello che lo capisce meglio: fa ciò che non c’è, per capirsi, e per fortuna non ci riuscirà mai. L’arte nei secoli ci ha dato un’energia incredibile, ma è pur sempre una piccolissima porzione di quello che ci sta attorno. Vivere questa vita è molto significativo per me: chiunque entra qui dentro può aggiungere un granello al tentativo di soluzione di un problema.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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