Ezio Gribaudo, il Cristoforo Colombo dell’arte contemporanea
Abbiamo incontrato Ezio Gribaudo nel suo studio-bunker di Torino in occasione del suo 84esimo compleanno. Un artista, editore, collezionista, promotore culturale e viaggiatore instancabile che ha attraversato la storia dell’arte del XX secolo. E a giugno una mostra a New York ricostruisce il suo sodalizio con Lucio Fontana.
Tutta l’opera di Ezio Gribaudo (Torino, 1929) non è altro che un immenso dizionario simbolico e non stupisce che sia in preparazione un “vocabolario gribaudiano”, per dirla con le parole di Vittorio Sgarbi nella prefazione del volume. A cura di Marina Rota per le edizioni dell’Archivio Gribaudo, si tratterà di un vero e proprio libro d’artista a tiratura limitata che attraverserà i momenti salienti della sua vita di pittore, grafico, editore, promotore culturale e tutti i suoi temi più noti: i Flani, i Logogrifi, i Dinosauri, i Concili. Proprio quest’ultimo ciclo pittorico del 1963, ispirato al Concilio Ecumenico Vaticano II, sarà anche protagonista, in autunno, di una mostra itinerante che toccherà Torino, Atene e Gerusalemme per celebrare i cinquant’anni trascorsi da quell’evento, immortalato per sempre nei disegni e dipinti di Gribaudo.
Una mostra che sarà anticipata a giugno da una grande esposizione all’Istituto Italiano di Cultura di New York, incentrata, invece, sulle opere in tecnica mista dal sapore diaristico che l’artista produsse nel 1961 durante il suo soggiorno nella metropoli statunitense, in occasione della presentazione della monografia su Lucio Fontana. Di questo viaggio c’è traccia anche nel video in 8mm che Ezio Gribaudo e Francesco Aschieri girarono insieme e che, diventato dvd con la colonna sonora del duo Supershock (Paolo Cipriano e Valentina Mitola), sarà proiettato nel corso della mostra. Per capire meglio la complessità e le tante sfaccettature del personaggio Ezio Gribaudo, lo abbiamo incontrato nel suo studio di Torino il giorno del suo compleanno e lo abbiamo intervistato.
Fruttero e Lucentini, in un testo che accompagnava una sua mostra, hanno affermato che “se il passato dovesse darsi uno stemma, sceglierebbe il dinosauro come animale araldico”. Il dinosauro in pietra che campeggia nel giardino del suo studio per festeggiare il suo 84esimo compleanno è forse il simbolo di quello che lei rappresenta per Torino: una memoria storica?
L’idea dei dinosauri nasce in un viaggio a New York con mia figlia Paola nel 1983. Il primo museo dove la portai fu l’American Museum of Natural History nei pressi di Central Park, dove stavano allestendo una mostra di scheletri di dinosauri di 6 metri d’altezza che mi colpirono. “Mah”, pensai,“se venisse qui un sarto come Armani li vestirebbe”. E Io ho rivestito questi animali usando tutte le tecniche, anche la juta, cercando di dargli un’impronta contemporanea. A Torino non ho mai fatto qualcosa di importante sui dinosauri, mai. Ho fatto una mostra a Milano alla Galleria Bergamini nel 1987, in occasione della quale Fruttero e Lucentini scrissero il libro Gribaudo Dinosaurus e poi nel 1993 uscì anche il volume edito da Fogola, I Dinosauri di Gribaudo.
Il suo studio è stato progettato nel 1976 come una sorta di bunker dall’architetto Andrea Bruno, autore, fra l’altro, del restauro del Castello di Rivoli. Come nasce questa collaborazione?
Io studiavo architettura e Andrea Bruno era mio compagno di corso. Decisi di comprare questo terreno che si trova a 100 metri dalla mia abitazione e buttai via il vecchio progetto che era stato bocciato perché sembrava una baita a Courmayeur. Insieme all’architetto ne pensai uno nuovo ed è stato come quando uno va da un sarto e si fa fare l’abito su misura. Quello fu l’ultimo progetto che la Commissione Igienico Edilizia del Comune di Torino approvò, perché qui siamo a 2 chilometri da piazza Castello e non si era mai costruito dal nulla. C’erano stati anni di ristrutturazioni ma qui prima di allora non c’era nulla, c’era solo un giardino. Ora c’è il mio studio da più di quarant’anni e sta invecchiando con me e qui dentro è una specie di Gabinetto del Dottor Caligari. Dello studio ne hanno scritto anche delle riviste trent’anni fa per sottolineare il fatto che, tecnicamente, è stato concepito in un certo modo, col cemento a vista. È un monumento già lo studio.
Le sue doti di promotore culturale si sono viste in molte occasioni, ma la più eclatante è stata quella di aver portato la Collezione Guggenheim in mostra a Torino nel 1976, dopo che anni prima era stata rifiutata per questioni di opportunità politica. Ci racconta com’è andata?
Io allora facevo parte del comitato direttivo della Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino. Era un comitato con l’assessore Giorgio Balmas, un grande assessore nell’ambito della cultura musicale. Dissi che conoscevo Peggy Guggenheim e che volevo portare la mostra qui e tutti rimasero increduli. Conoscevo Peggy perché avevo pubblicato un libro sulla sua collezione. Questo perché, oltre alla mia attività artistica, ha avuto sempre una grande importanza la parte editoriale: ho fatto monografie e libri di personaggi illustri. Quindi portai la mostra della Collezione Guggenheim a Torino. Oggi sarebbe impossibile. La mostra ha avuto un successo strepitoso e tutto senza spendere una lira. Io a quei tempi andavo dal sindaco per proporre progetti senza chiedere nulla in cambio. Ho anche viaggiato molto, sono stato una specie di Cristoforo Colombo di Torino, sempre riguardo all’arte contemporanea. In quegli anni non sospetti ero in America, ho fatto cento viaggi in America, a New York soprattutto, e allora tutto questo dava fastidio.
Ci dà un altro esempio delle sue capacità organizzative e imprenditoriali?
Portai Dubuffet a Torino nel 1978, anni difficili, di piombo, ed è stato un grandissimo evento del XX secolo e anche un’operazione culturale di rilievo perché per la prima volta, dietro mio suggerimento, un’industria privata come la Fiat sponsorizzava una mostra. Di questa mostra-spettacolo su Jean Dubuffet dal titolo Coucou Bazar, che era stata fatta a New York al Guggenheim e a Parigi al Grand Palais negli Anni Settanta, io ho avuto l’abbrivio in persona dagli Agnelli. È stato un momento storico, nato a Torino alla Promotrice delle Belle Arti dove costruimmo dentro un teatro. Quell’operazione è costata in quegli anni intorno ai 3 miliardi e solo un’industria privata avrebbe potuto sostenerla. Il sindaco e gli assessori di quegli anni erano stati tirati poi dentro ma l’idea resta di Ezio Gribaudo e di Gianni e Umberto Agnelli. Fu un fatto straordinario e lo stesso allora sindaco di Roma Carlo Giulio Argan mi disse: “Lei ha prestato al potere economico un’idea che invece dovrebbe appartenere al mondo della cultura”.
Ma lei si è sempre “fatto” da solo?
Io sono uno che a 84 anni, oggi è il mio anniversario, sono qui nel mio bunker perché a casa mi potrei sparare. Invece qui sto bene ed è dall’età di 16 anni che lavoro 10-12-14 ore al giorno. Quando incontrai Picasso nel ’51-’52, gli chiesi qual era la chiave del successo. Allora avevo l’incoscienza dei vent’anni e lui era già Picasso. Mi rispose che lavorava 14-15-16 ore al giorno. E lui ha fatto tanto, ha prodotto nella ceramica, nelle incisioni, in tutto, anche perché è arrivato ai novant’anni anche lui. Nella vita c’è chi lavora e chi non lavora, ci sono le formiche e le cicale. Io sono stato, per la mia educazione, una formica e ho accumulato adagio. Sono stato collezionista e ho comprato i quadri di Alberto Savinio quando nessuno li comprava, in anni in cui la gente non sapeva neanche che fosse il fratello di de Chirico. Si chiama lungimiranza e se tu esamini tutto questo con l’occhio di oggi dici: “Dio bon!”.
Il suo ruolo di editore, prima alla Fratelli Pozzo fino al 1976 poi in proprio, ha avuto ripercussioni sulla sua attività artistica? L’ha penalizzata o avvantaggiata, come sostenne certa critica in occasione della vittoria del premio ufficiale della grafica alla XXXIII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1966?
All’origine penalizzata, perché quelli che fanno tutto, a cui sembra gli vada tutto bene, danno fastidio. Innanzitutto, alla Biennale di Venezia non era previsto che vincessi. Ero un outsider, sono stato fortunato a essere stato invitato, insieme ad altri 40 artisti. C’era una giuria internazionale e tra i giurati c’era Palma Bucarelli, che è stata una delle donne più importanti nell’ambito della storia dell’arte italiana. Io non sono mai stato incisore e vinco il premio dell’incisione. Perché la mia era una novità, era un’impronta che io davo, non c’era il colore, non ho mai inciso. Io mi sono trovato nell’ambito di un’azienda come la Pozzo dove avevo a disposizione una quantità enorme di opere grafiche e libri stampati da quest’azienda e così io ho usato i mezzi, le carte buvard, i flani che nessuno aveva mai usato prima per delle mostre. Manipolando questo materiale mi presentai a Venezia e vinsi il Gran Premio Internazionale dell’Incisione. Quindi, nessun potere, è tutta storia.
Cosa le ha lasciato la sua breve esperienza (dal 2005 al 2007) come presidente dell’Accademia Albertina, di cui è tuttora presidente onorario?
Io avrei voluto fare qualcosa per esprimermi e per cambiare le regole del gioco, ma lì non era il problema dell’Accademia Albertina ma della situazione in generale. I problemi dell’Accademia nascono dall’ubicazione all’interno di uno stabile straordinario, ma in rovina. La carica di presidente prevedeva solo oneri, e non onori. L’inizio è stato entusiasmante, perché volevo fare una rivoluzione, ma ben presto mi sono reso conto di dovermi confrontare con una serie di problemi di una prosaicità tale che nulla aveva a che fare con l’arte. Avrei voluto aprire studi e botteghe, dove la gente aveva voglia di entrare come succedeva nel Duecento con Giotto, ma non c’erano i mezzi per realizzarli. Forse questo è un momento tragico per la cultura in generale.
La sua ultima mostra presso le Fonderie Limone di Moncalieri è stata prorogata al 28 febbraio. Che ricordi ha di quella fabbrica ora diventata teatro, ma che ha mantenuto parte del suo aspetto industriale anche grazie al suo suggerimento all’amministrazione di allora?
Conoscevo le Fonderie Limone, che fondevano cose non per artisti, perché capitai lì per caso nel 1973 e dissi che volevo fondere delle mie silhouette che avevo fatto in cera persa e delle piccole scatole inventate, delle boites, tutte in una sola copia. Diventarono così delle sculture di enormi dimensioni, decorate con i pesci con gli orari ferroviari in bronzo. Andavo quotidianamente a far fondere tonnellate di bronzo in quell’azienda che stava chiudendo e la aiutai a risollevarsi con i miei esperimenti, le mie invenzioni. Perché le idee avevano bisogno di essere realizzate.
Claudia Giraud
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