Gabriele Basilico è stato un caro amico nel corso degli anni. L’ho conosciuto circa vent’anni fa, ero una ragazza e lui era già un grande maestro. Ma di una cosa mi sono accorta sin dal nostro primo incontro: che mi trovavo di fronte a una persona di grande apertura umana e professionale. Con lui si parlava di tutto, era un uomo intelligente, curioso, che non pontificava mai. Una virtù rara. Con Gabriele ci si sentiva a proprio agio. I miei studenti che hanno avuto occasione di conoscerlo lo adoravano; sì, perché Gabriele si intratteneva con tutti, parlava, si confrontava, ti faceva domande, cercava di capire, il mondo dei giovani lo affascinava.
Sin dai suoi primi passi nel mondo dell’architettura, negli Anni Sessanta, quando a Milano si iscrive al Politecnico, e poi in quello della fotografia, Basilico cercava di capire, di approfondire, di conoscere. Ragazzo, secondo le sue testimonianze, girava la città con gli occhi rivolti alle architetture dei maestri. In quegli anni si cominciava a mettere in discussione la figura dell’architetto, il mestiere, il senso della professione. Con il ’68 le cose cambiano completamente. Proprio in quel periodo inizia quasi per caso a fare fotografia. È possibile in questi giorni vedere alcuni esempi di Basilico fotografo di quegli anni in una mostra all’Università Bocconi di Milano, intitolata 1966-1976 Milano e gli anni della grande speranza. La fotografia lo seduce, lo affascina. Il suo grande maestro, segreto, è Walker Evans, il grande americano della Farm Security Administration e di molto altro. Ma anche l’Eugène Atget delle strade di Parigi, delle vetrine dei negozi. E quindi Bernd e Hilla Becher, dei quali vede una mostra a Milano negli Anni Settanta, nella galleria di Massimo Valsecchi. Una mostra che spesso citava.
Va qui sottolineato un momento fondante del suo percorso: il rapporto con i libri, dei quali il suo studio era pieno zeppo e che Gabriele amava possedere e realizzare. Ogni volta che andavo da lui c’era una novità. Te la regalava, ma non mancava di parlartene, di raccontarti come era nata, che senso aveva in rapporto con quanto stava succedendo. Nel 2006, con Corraini, aveva persino pubblicato Photobooks 1978-2005, un libro sui suoi libri.
Tra il 1978 e il 1980 si colloca la sua prima indagine fotografica su un particolare aspetto della città in trasformazione. Da quella esperienza tra fotografia e urbanismo sarebbero nati il libro e la mostra Milano ritratti di fabbrica. Ogni lavoro nasceva per lui da una minuziosa e puntuale ricognizione topografica e del territorio. “Sono fortemente condizionato da un’esigenza di progettualità, cioè mi è difficile pensare di scattare delle foto che non facciano parte di un progetto precostituito e organizzato, pur sapendo che ciò rappresenta a volte una limitazione alla creatività”.
Quando, finalmente, quel primo lavoro sulle periferie milanesi viene esposto al Pac del capoluogo lombardo, nel 1983, viene notato dallo storico Jean-François Chevrier, che lo coinvolge nella prestigiosa missione fotografica della D.A.T.A.R., promossa dal Governo francese.
Nasce così Bord de Mer, un lavoro importante, ancora adesso da scoprire in tutta la sua complessità, che sarà oggetto di una prossima pubblicazione di Dalai Editore. Basilico da quel momento diviene una figura imprescindibile nel panorama della fotografia internazionale. Molti sono i lavori ai quali si dedica. Uno tra i più noti e toccanti è quello su Beirut, dove nel 1991 viene coinvolto, insieme ad altri mostri sacri, dalla scrittrice libanese Dominique Eddé a documentare il centro della città distrutta dalla guerra. Un lavoro questo, sulla pelle della città, che molti anni dopo, nel 2007, verrà esposto alla Biennale di Venezia.
Tra i suoi lavori più significativi, per riuscire a comprendere il suo particolare rapporto con il territorio, Sezioni del pesaggio italiano realizzato con l’architetto Stefano Boeri nel 1996. “La foto diventava un documento su cui lo sguardo si esercitava per offrire elementi di discussione meno astratti alla lettura del territorio”, secondo quanto scriveva lo stesso Basilico. Un viaggio compiuto in auto, all’interno di sei sezioni del paesaggio italiano, appunto, del quale riesce a rilevare le trasformazioni, i mutamenti.
Una grande operazione di urbanismo contemporaneo. Il suo è stato sotto molti punti di vista un atteggiamento da fine uditore, citava sovente Ascolto il tuo cuore città, il libro di Alberto Savinio. Un libro dedicato a Milano, dopo i bombardamenti distruttivi del 1943. E Milano è la città in cui nell’agosto 1944 Gabriele era nato.
Le città, i luoghi del suo operare sono stati molti: importante la recente scoperta di Mosca, i luoghi della Silicon Valley, che aveva studiato approfonditamente prima di fotografare, Istanbul, Shanghai. E quindi Roma, fotografata durante un autunno piovoso. “Fare delle fotografie ‘panoramiche’ lungo il Tevere ci riporta con immediatezza al vedutismo pittorico dei secoli passati. Questo è molto interessante perché penso che la fotografia documentaria, e il suo linguaggio minuziosamente descrittivo, siano ancora oggi perfettamente idonei, insieme ad altri modi di rappresentazione, per raccontate il nostro paesaggio, la nostra realtà fisica, se colti con la giusta misura e il giusto equilibrio”.
Nei nostri numerosi incontri, nel corso degli anni, molte volte mi sono trovata a parlare con lui di arte, degli artisti nei confronti dei quali si sentiva debitore, Poussin con i suoi “paesaggi moralizzati”, i vedutisti del Settecento, Piranesi – di grande interesse la mostra veneziana che li aveva ospitati insieme – e ancora Mario Sironi, che alle periferie, in tempi diversi ma con modalità affini, aveva dedicato molte ricerche.
Ci mancheranno il suo sguardo, le sue parole, le sue intelligenti letture.
Angela Madesani
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