Goodbye, Devalle
Lunedì 4 febbraio è mancato Beppe Devalle, un pittore che - tra grandi successi e ripiegamenti - ha vissuto mezzo secolo d’arte. Una lunga malattia e un volontario esilio lo avevano portato lontano dalle scene che in passato aveva solcato, lasciandoci molte opere su cui riflettere. Abbiamo provato a farlo.
Tutti stanno celebrando i successi del passato di Beppe Devalle (Torino, 1940 – Milano, 2013): le Biennali, Triennali, Quadriennali, da Venezia a Tokyo, passando per Roma e Milano, l’amicizia con Pistoletto, la frequentazione con Sperone, la Hayward Gallery, il Museo del 900, la Villa Reale di Monza, Palazzo dei Diamanti, il PAC, la GAM-Torino, il Corriere della Sera e l’insegnamento a Brera, ma anche il suo ritiro dalle scene e la lunghissima malattia. Tutto vero; eppure è un torto nei suoi confronti, perché gli ultimi suoi anni, nel silenzio della critica, li ha trascorsi a lavorare, pur divorato dalla malattia, da mattino a sera, per creare cose nuove, diverse da quelle che un tempo lo avevano reso famoso. Lavori di qualità straordinaria, che oggi bisogna riconsiderare.
Da circa cinquant’anni Devalle collezionava ritagli da magazine di ogni parte del mondo; negli ultimi dieci anni aveva preso a riassemblarli in forma di collage – tecnica in cui era un vero maestro – per creare una serie lunghissima di bozzetti che, nella loro ultima versione, venivano poi trasposti sulla tela dove si coloravano di quei toni con cui sapeva giocare, in un sottile equilibrio di compostezza ed eccentricità. Con le sue forbici, Devalle divideva chiaramente in amo/odio le figure, e le ritagliava spesso con uno spirito critico che scardinava la pagina di giornale con le sue stesse armi: esemplare come in Audrey Banana, solo ripiegando la pagina, la diva si fosse trasformata nell’interno di una banana, appunto. Uno spirito critico che aggiunse un gusto europeo all’interpretazione del Pop data da Hamilton, che non arrivava mai al punto di tagliare le figure che prendeva a soggetto. In questi collage, come in quelli precedenti, la precisione geometrica del taglio, risultato tangibile di una visione del mondo chiara e definita, si mischia all’emozione che attraversava la mano dell’artista, esplicitando l’intima unione di ragione e sentimento, geometria ed emozione, come in Osvaldo Licini.
Tutto questo si trasferiva, come detto, su tela: Devalle aveva trovato il modo di tornare a fare pittura dopo il Pop, senza farsi travolgere da esso, ma rimeditandolo e producendo qualcosa che, nell’andare avanti, recuperava anche le esperienze precedenti e contemporanee, da Goya a Cézanne, da Bronzino a Francesca Woodman, continuando, però, a riflettere sull’attualità. Se tutto può essere arte, ciò non toglie che ogni tempo debba esprimere ciò che ritiene “buona arte”: per delimitare questo campo, oggi, non c’è altro criterio che quello di valutare quanto l’opera rifletta a fondo sull’attuale condizione dell’uomo e come si ponga in relazione con la storia dell’arte passata.
Lui era sicuro che la sua fosse la scelta vincente, che non poteva aver sbagliato l’ultima mossa di questa “guerra” che si consuma nel mondo dell’arte, tra chi crede che l’arte sia ancora un linguaggio in cui tradurre la realtà, e chi si adagia nel limbo dell’avanguardia e annuncia slogan del nulla, guadagnandosi spesso, così, dei quadri-invettiva dell’ultimo periodo di Devalle, purtroppo mai esposti al pubblico.
Entrando nel suo studio, una costellazione di diversi personaggi, da Gesù Cristo a Marilyn Monroe, passando per Andres Serrano, Pina Bausch, Lady Diana, Milton Glaser, Maurizio Cattelan, Andy Warhol e Chopin, Kate Moss e Twiggy, ma anche i Versace, Sylvia Plath, Virginia Woolf, Kurt Cobain, Simone Weil, Marella Agnelli, Keith Haring, Picasso e Joseph Beuys, Madonna, Scarlett Johansson e Peggy Guggenheim, sbalordiva anche chi, oltre a Beppe, era un vero divoratore di immagini e icone della modernità. Eppure tutti questi personaggi sembrano – come mi disse Beppe una volta – sperduti come indios Nambikwara. Tutto per loro è compiuto: rimane solo il pennello di Devalle che, sedendo al centro del mondo, come Courbet nel suo atelier, ne suggelli la verità più intima (come scrisse Paolo Biscottini in un catalogo: “You are my destiny”).
Se poi ci focalizziamo sui volti, ci accorgiamo di come ognuno di essi sia carico di vita, talmente carico che è sul punto di implodere: sono all’ultimo attimo di vita, prima di dissolversi, “come se conoscessero anche la morte per sovraccarico di vita” (Jean Genet): ogni volto porta una ferita, che lo vivifica, come un taglio di Fontana che apre a un eterno circolo tra noi e il quadro. I loro occhi ne pretendono altri che li fissino: e noi fissiamo quegli occhi come fisseremmo la canna di un fucile. Il roboante flusso di auto, le immagini, il cinema, la pubblicità, tutto si ferma: davanti a quei volti rimaniamo soli a confrontarci con noi stessi e il dipinto. Come se dipingesse sul ghiaccio, la freddezza delle superfici impone la solitudine: noi, siamo, in effetti, soli di fronte a quella strana religiosità iconica che promana dai suoi quadri, dal suo sguardo talvolta causticamente lambiccato.
Quelle icone sprofondano nella solitudine, ma in una solitudine che ne è la gloria o il baratro più certi: una solitudine del giudizio, dato da se stessi e dagli altri; una solitudine della responsabilità, parola tanto dimenticata nel vocabolario dei nostri giorni. La solitudine con cui Marilyn, in uno dei più recenti lavori, assurge a eterna Venere cicladica perché muore sola, ritraendosi dall’obiettivo fotografico di un Cecil Beaton che vorrebbe fotografarle il sesso. O la solitudine di Damien Hirst quando la morte, con cui troppo spesso ha giocato, senza diamanti indosso, gli si rivolge interlocutoria: “Mr. Hirst, I presume”.
Beppe e i suoi quadri ci pongono davanti a una sorta di “società della solitudine”, in cui ognuno può essere ciò che è puramente, senza dover rinunciare a se stesso per inseguire il sogno di essere qualcuno, ma in cui nessuno può illudersi di non essere giudicato, prima o poi.
Si palpa, tra queste opere, la fragilità della gloria patinata, mentre Devalle, dipingendo, sembrava Giove tra i lillipuziani: il pennello, impugnato con la perizia di un vecchio professore di Brera, scontornava senza pietà i protagonisti di questa storia liquida che ci scorre attorno, con nostalgia, stima, sdegno o violenza (ricorderò sempre un impressionante Timothy Mc Veigh’s Execution in cui una morte come Lynda Banglis, con il suo enorme dildo, si accosta al boia del terrorista di Oklahoma City).
Davanti a un mondo che sembra andare in direzione totalmente contraria, nella piccola isola felice dello studio di Devalle a Pessano, i suoi dipinti proponevano una bellezza che si rifiutava all’obiettivo fotografico, una sacralità della vita, un’emotività sincera, una profonda riflessione, una divertita evasione.
Giulio Dalvit
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