Ha gli occhi vivi, Gianni Berengo Gardin (Santa Maria Ligure, 1930). Ha gli occhi di chi ha visto il mondo – e con esso tutto il suo bagaglio umano – e l’ha fissato per sempre, in uno scatto. Siede su una poltrona, gli occhiali da vista appesi al collo e la macchina fotografica (fedele compagna, inseparabile amica) a tracolla. Non se ne separa mai, nemmeno quando inizia a rispondere alle nostre domande.
Anche qui, anche oggi, lei è con la sua macchina fotografica. Perché questa inscindibilità?
In qualunque momento può rivelarsi qualcosa di unico e inaspettato. Bisogna sempre essere pronti a cogliere quell’irripetibile scena che il destino ti sta gentilmente concedendo. Anche adesso, anche qui.
Nella sua fotografia ci sono testa, occhio e cuore. Ma non mancano le dosi di stomaco e fegato, tipiche di chi vuole raccontare qualcosa.
Sono più importanti testa, occhio e cuore. Lo diceva anche Bresson. Però attenzione: per fare una buona fotografia queste componenti devono lavorare in simbiosi.
Lei non ama definirsi un’artista ma semplicemente fotografo. Come mai?
Sono del parere che l’aggettivo ‘artistico’ si appelli a una foto priva di contenuto, a uno scatto che predilige la forma all’essenza. I miei sono scatti diversi, ogni mia foto racconta qualcosa di vario. La forma, invece, è la stessa da cinquant’anni.
Parliamo di forme, allora. Meglio: di stili, del suo stile. Il bianco e nero preferiti al colore, la pellicola preferita al digitale…
La scelta del bianco e nero deriva dalla mia formazione bressoniana. Ma soprattutto perché credo che sia la scelta più efficace per il mio genere di fotografia. E poi i colori distraggono, fanno perdere l’orientamento a chi guarda. Per non parlare che sono nato in bianco e nero: televisione, cinema, giornali. Ho succhiato latte in bianco e nero. La pellicola, invece, la preferisco al digitale perché è qualcosa di concreto, che puoi toccare, che puoi conservare in archivi. Il digitale è solo un numero, lo scatto in digitale è solo un tic nervoso.
Lei è un tradizionalista! Cosa ne pensa dei nuovi modi di fare fotografia?
Mi vien da ridere quando sento definirsi fotografi chi scatta una foto con l’iPhone. In questo caso si dovrebbe parlare solo di ‘uno che scatta foto’. Sarà che la mia è stata una scuola diversa, ma non ho mai seguito le mode. Ho sempre avuto rispetto e ammirazione per i miei colleghi – tuttora compro i loro libri -, i giovani invece no: a loro piacciono solo le loro fotografie.
Finora abbiamo parlato poco, invece, del suo modo di fare fotografia. Qual è la fotografia di Gianni Berengo Gardin?
Ho sempre cercato di documentare le trasformazioni dei Paesi, delle città, delle persone. Cerco di narrare ciò che resta, di raccontare piccole e grandi storie. Il mio è fotogiornalismo, è reportage. Ricordo gli anni della mia collaborazione con il Touring Club, che mi hanno permesso di scoprire meglio l’Italia, di fotografare gli angoli impolverati di questo Paese e le storie dimenticate. I miei sono gli occhi che hanno visto cambiare questa nazione, e l’hanno immortalata.
Puglia 1966 è il titolo di un suo scatto. Per pura curiosità: si ricorda precisamente dove l’ha scattata?
Certo, quello è il molo di Barletta. Fu uno scatto fortunato. Quella foto è tra le preferite di Henri Cartier-Bresson, me lo disse lui di persona, tanti anni fa.
Basta parlare di passato, congediamoci con una domanda sul futuro: progetti in cantiere?
Ho appena finito un libro fotografico su una cascina vercellese rimasta intatta.
Ancora col passato?
È più forte di me. Non smetterò mai di voltarmi indietro….
Paolo Marella
Venezia // fino al 12 maggio 2013
Gianni Berengo Gardin – Storie di un Fotografo
TRE OCI
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