L’arte al cospetto della globalizzazione
Un percorso serrato e appassionato che conduce dal 1984 a oggi, attraverso alcune delle mostre più discusse che hanno tentato di esporre l’alterità. Alterne vicende, esiti incerti, il ruolo marginalissimo dell’Italia. E lo spettro di colonialismo ed esotismo che non accenna a scomparire.
Con Nuove geografie artistiche. Le mostre al tempo della globalizzazione (Postmediabooks, pagg. 288, € 22,50), Roberto Pinto licenzia un libro atteso da tempo. L’obiettivo è ambizioso: analizzare come l’arte ha affrontato il fenomeno della globalizzazione (e l’incontro/scontro fra l’Occidente e le “altre” culture) attraverso le mostre temporanee collettive, eventualmente nell’ambito di rassegne reiterate come la Biennale di Venezia o la Documenta di Kassel. Un volume che fa il paio con quello, anch’esso recentissimo, di Marco Meneguzzo, Breve storia della globalizzazione in arte (e delle sue conseguenze) (Johan & Levi, pagg. 174, € 16).
Quello di Pinto è dunque un lavoro che solo apparentemente si mette nella scia di testi come L’arte in mostra. Una storia delle esposizioni di Antonello Negri o Salon to Biennial. Exhibitions that Made Art History di Bruce Altshuler. Perché il suo orizzonte è cronologicamente più ristretto – si parte sostanzialmente da Primitivism in 20th Century Art. Affinity of the Tribal and the Modern, mostra curata da William Rubin per il MoMA di New York nel 1984 – e il “taglio” più politico che storico. O meglio, la lettura storica serve per enucleare politicamente il tema.
Il libro segue perciò un andamento articolato, aprendosi e chiudendosi con capitoli connotati da un’impostazione più generale, e dichiaratamente militante, mentre in quelli centrali l’analisi storica (operata in senso più geografico-tematico che cronologico) è punteggiata da considerazioni critiche che si fondano sulle premesse iniziali e costruiscono le prospettive conclusive. Ciò equivale a dire che si tratta – lo si desume anche dalla corposa bibliografia – di un libro che dispone di solide basi metodologiche e documentarie, e che ha il pregio di affiancare e armonizzare un impianto accademico con una tensione che potremmo tranquillamente definire ‘civile’. A chiusura del volume, infine, numerose schede riprendono le mostre più importanti citate e analizzate nel corso delle pagine precedenti, fornendo in tal modo al lettore la possibilità di approfondire l’indagine a tre livelli (testo, schede, bibliografia).
La domanda che attraversa il volume è: come può una mostra fotografare (e magari promuovere, ma almeno non ostacolare) il dialogo interculturale? I casi specifici – per citare uno dei più noti: Magiciens de la Terre, curata da Jean-Hubert Martin nel 1989 al Centre Pompidou di Parigi – servono per scandagliare le mille declinazioni che la domanda, e ogni singolo termine che la costituisce, può assumere, nonché per valutare pregi e difetti dell’impianto curatoriale che li hanno generati. Perché sono sempre in agguato le “trappole tese intorno al discorso identitario”. Qual è infatti il punto di vista che si adotta quando si parla di sé e degli altri? Come si può evitare di incappare nell’opposizione binaria Noi/Loro, uniformando tutto ciò che differisce da ciò che si presume “proprio”?
Il percorso proposto da Roberto Pinto può apparire sconsolante, perché ogni passo in avanti, ogni soluzione di un problema pare generarne innumerevoli altri. Così è per la succitata mostra del MoMA, che supera il “modello etnografico e antropologico” ma costruisce di fatto l’alterità in funzione di una doppia negazione: non-classico e non-occidentale. Ma in tal modo non si ottiene nemmeno il risultato di identificarla, poiché a tali caratteristiche rispondono ovviamente molteplici culture ed espressioni. E, di ritorno, si evidenzia la problematicità del concetto di ‘Occidente’, nonché la forzatura esotica sottesa nell’atto di scegliere cosa è altro da noi.
Sono queste solo alcune delle criticità che emergono nella mostra di Rubin. Quando prepara la sua mostra, Martin ne è ben consapevole, ma l’esito non è esente da ulteriori difetti. Perché, ad esempio, la scelta/soluzione di proporre “un confronto tra singole opere senza mai aspirare a illustrare una cultura attraverso lavori estremamente individuali come sono le opere d’arte” porta a privilegiare un certo tipo di manufatti: “Nella mostra non si trova, quindi, nessuna traccia di sperimentazioni legate all’ibridazione e alla globalizzazione già in pieno sviluppo in quegli anni; piuttosto, ancora una volta, si privilegia un’immagine di culture ‘incontaminate’, ma non necessariamente più ‘vere’”.
Gli esempi analizzati da Pinto sono tanti, e non manca un capitolo dedicato all’Italia: come si può facilmente intuire, non è dei più stimolanti, e certo non per responsabilità dell’autore. Ma nemmeno la Documenta ne esce troppo bene, se mai potesse essere di sollievo. Perché in fondo quello delle mostre è un epifenomeno. Basta cambiare alcuni termini specifici della frase seguente per comprenderlo: “Il problema sta nel cercare di capire come evitare le trappole di un ennesimo post-post-colonialismo che include all’interno di canoni estetici occidentali soltanto quelle forme artistiche che possono essere assorbite dall’incrocio di poteri costituiti dal mercato, dal museo e dalla critica accademica”.
Evitando le trappole del fenomeno generale, al di là delle peculiarità del mondo dell’arte, si rischia di finire nel migliore dei mondi possibili.
Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #10
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