Premio Furla: passato, presente, futuro
Tutto quello che avreste voluto sapere sul Premio Furla e non avete mai osato chiedere. Daniele Perra l'ha fatto. Una lunga chiacchierata con Chiara Bertola, curatrice del Furla, fa il punto sul passato, presente e futuro del premio. Se ci sarà...
Nel 2007 ho avuto il privilegio di essere tra i selezionatori del Premio Furla. A quel tempo funzionava così: il comitato scientifico nominava cinque selezionatori, che a loro volta segnalavano una rosa di sei artisti ciascuno. Succedeva anche che uno stesso artista fosse suggerito da più selezionatori, come è successo con Luca Trevisani, vincitore di quell’edizione, segnalato da me e da Francesco Manacorda. Una giuria nazionale faceva una scrematura arrivando a cinque nomi e una giuria internazionale nominava il vincitore. Oggi il comitato scientifico del premio invita cinque curatori che in coppia con un collega straniero fanno un solo nome e una giuria internazionale nomina il vincitore. Non pensi che la vecchia formula fosse più democratica e desse a più artisti la possibilità di entrare nella competizione?
Mi fa piacere che inizi con questa domanda, perché mi dai l’occasione di spiegare un po’ l’evoluzione e la crescita del premio. Nel 2007 c’erano cinque selezionatori, ti faccio fare un passo ancora indietro… Il premio è iniziato addirittura con dieci selezionatori. Ci vedevamo arrivare una grande quantità di proposte dai vari selezionatori e la giuria nazionale, con un grossissimo e faticosissimo lavoro, scremava e ne tirava fuori cinque. Mi ricordo però che immediatamente e velocemente si scremava quasi naturalmente, perché non è possibile tirare fuori una quantità di talenti di qualità così alta. Per cui abbiamo detto che forse potevamo ridurre, perché era dispersivo. Il passaggio da una giuria nazionale a una internazionale era ridondante e farraginoso, pesante. Abbiamo quindi privilegiato la responsabilità dei curatori. Quello che ci interessava di più era coinvolgere lo sguardo di curatori stranieri, molto diverso da quello degli italiani. Di fatto, tutto il lavoro della giuria nazionale, quella grande scrematura, la fanno i cinque curatori che arrivano a proporre una candidatura secca, ma attraverso un percorso e un lavoro approfondito che fanno insieme a un curatore straniero.
Sì, ma numericamente erano più artisti. Adesso c’è una scrematura a priori, si dà la responsabilità a cinque curatori di fare un solo nome. Prima erano trenta artisti di cui una giuria nazionale, e quindi altri curatori, faceva una seconda scrematura. C’era un doppio “filtro”. Ora si va direttamente dalla scelta del curatore alla fase finale. C’è un passaggio in meno.
Sì però si è raddoppiato lo sguardo del curatore, perché invece di essere cinque sono dieci curatori, di cui cinque italiani e cinque stranieri. Quindi dieci sguardi attivi in Italia a vedere il lavoro degli artisti. Se andiamo poi a vedere il numero degli artisti che vedono, andando a visitare gli studi e non sfogliando dei book che vengono mandati – perché questo era il lavoro della giuria nazionale -, secondo me è molto più interessante, serio e professionale. Di fatto, è stato eliminato il passaggio della giuria nazionale perché è stato dato un peso diverso e una responsabilità maggiore alle cinque coppie di curatori.
Ti chiedo allora qual è il criterio di scelta dei curatori/selezionatori: seguite delle regole nella loro individuazione? Vista l’importanza che poi ha il curatore, dovendo scegliere a sua volta il collega straniero.
La scelta dei cinque curatori iniziali dà il tono all’edizione. È la scelta più importante. Ogni edizione è determinata dal lavoro, dalla professionalità e dalla serietà dei cinque curatori scelti. Siamo coscienti di questa cosa e quindi la scelta è molto attenta, importante. Siamo io, Giacinto Di Pietrantonio, Gianfranco Maraniello e Viktor Misiano, i quattro del comitato scientifico, che insieme discutiamo la scelta. Visto che ogni edizione si cerca di cambiare totalmente i nomi delle nomenklature precedenti, ovviamente il parterre di curatori attivi, aggiornati, che siano in relazione col mondo internazionale e con quello nazionale, non è poi così ampio. I nomi cadono sulle persone che secondo me stanno facendo un lavoro migliore in Italia. Quella scelta determina il vestito del premio. Cuciono la stoffa del premio.
Nello statuto del Premio non ci sono limiti d’età nella scelta degli artisti?
No, assolutamente.
Fatto sta che ogni edizione è stata vinta da un giovane. Questo ha fatto sì che molti artisti italiani validi, che mi risulta siano stati suggeriti in più edizioni, e spesso da più curatori contemporaneamente, non siano stati inclusi, col rischio di “cancellare” artisti di una certa generazione. Di edizione in edizione, non essendoci limiti d’età, i curatori si sono sentiti liberi di fare nomi di artisti, per la qualità del loro lavoro, che non sarebbero comunque stati scelti perché a vincere era sempre un giovane. Ovviamente ora il problema non si pone più, perché viene fatto un solo nome. Ma non sarebbe a questo punto più trasparente definire limiti d’età precisi?
Forse bisogna prima farsi una domanda. A cosa servono i premi e a cosa serve il Premio Furla? È brutto mettere dei limiti perché è come mettere dei limiti a qualità che non vediamo e che non sono relative all’età. È interessante rilevare che il premio, nel suo cammino, nel suo sviluppo, come dicevi tu prima, ha trovato la sua natura, il suo carattere di premio per giovani emergenti. A chi serve quindi? È una domanda che ci poniamo sempre e che mi fanno ogni volta i giurati internazionali. Il carattere del Premio Furla è dare un sostegno, un aiuto, una possibilità, una valigia con delle carte dentro, del denaro e delle relazioni importanti, ad artisti che iniziano la loro carriera in modo professionale o che hanno già raggiunto un punto all’interno del sistema. E questo dipende veramente dai curatori. Nella scorsa edizione erano artisti ad esempio che avevano già fatto un primo passo nel sistema. Artisti che avevano già i riflettori accesi. La linea di partenza della scelta degli artisti è questa.
Non sarebbe meglio però comunicarlo, dichiararlo? Nella scorsa edizione c’erano emergenti di un certo livello, diverso da quello di quest’anno. C’erano Rossella Biscotti, Marinella Senatore, Francesco Arena…
Però ha vinto Matteo Rubbi, attenzione.
Appunto, torna il giovane.
Ma è interessante.
Quest’anno, come hai detto prima, il tono era diverso.
Non è interessante mettere dei limiti. Credo che la cosa importante sia la qualità e che la struttura del Premio Furla permetta alla qualità di manifestarsi.
Il Premio, da statuto, ha lo scopo di “valorizzare e sostenere gli artisti emergenti che vivono e lavorano in Italia”. I cinque curatori stranieri non seguono necessariamente nello specifico il panorama artistico italiano. Si tratta prevalentemente di un rapporto di fiducia che s’instaura tra il curatore italiano e lo straniero. Non viene nominato il curatore straniero per una sua specificità e conoscenza del panorama italiano.
Non è un’imposizione. Se i selezionatori italiani nominano dei curatori stranieri particolarmente attenti alla scena italiana, va benissimo.
Diciamo che per cogliere l’eccellenza del panorama italiano, oltre allo sguardo un po’ esotico dello straniero, se questo stesso straniero avesse conoscenza della scena italiana sarebbe meglio. Auspicabile quantomeno per un premio dedicato all’arte italiana. Ma il premio offre ai curatori stranieri la possibilità di trascorrere un periodo in Italia, fare studio visit, incontrare gli artisti?
I curatori, cinque italiani e cinque stranieri, vengono tutti e dieci pagati. Il curatore italiano prende il curatore straniero per mano e lo porta, fisicamente, negli studi degli artisti italiani. C’è un budget che offre il premio per la ricognizione che riguarda ogni coppia di selezionatori.
Quest’anno i curatori scelti dal comitato scientifico erano particolarmente giovani e quindi con un’esperienza direttamente proporzionale alla loro età. Alcuni di loro provenivano da settori come l’architettura e la letteratura. Non c’è il rischio che puntare su curatori con poca esperienza curatoriale possa minare l’autorevolezza e la scientificità del p cinque remio?
Si sta sottolineando che il Premio Furla ha coinvolto troppo i giovani, giusto?
No, sottolineo che il Premio Furla ha coinvolto giovani con poca, o in alcuni casi, scarsa esperienza curatoriale, al di là dell’età anagrafica.
A me interessa molto che ci siano sguardi diversi e ci sembrava più contemporaneo e interessante che all’interno dei cinque curatori, che avrebbero comunque poi avuto di fianco curatori stranieri, curatori veri, anche due virus, due presenze, due intelligenze, due sensibilità che provenivano da linguaggi contemporanei, ma non così centrati con l’arte. È arricchente invece che essere sottrattivo o sminuente. Modi più contemporanei di guardare l’arte, trasversali.
A ogni edizione viene invitato un artista internazionale a realizzare un’immagine e a dare un titolo al premio. Quest’anno era Jimmie Durham. Non pensi che sarebbe costruttivo se all’artista fosse chiesto un contributo maggiore al premio? Un ruolo più attivo e partecipativo?
Tutti i padrini e madrine del Premio Furla sono attivissimamente coinvolti nella giuria. Ogni artista fa audizioni con la giuria, presenta il lavoro, la mostra e il progetto, nelle diverse fasi. L’artista padrino è una figura molto dominante nella giuria, presente nel dare giudizi e consigli agli artisti. Abbiamo sempre cercato di dare nella giuria un ruolo attivo al padrino scelto, che intrattenesse un dialogo personale con i singoli artisti, senza farne una star. Per dare tutta l’attenzione agli artisti.
La vincitrice di quest’anno, Chiara Fumai, in una breve intervista video rilasciata a caldo, rifacendosi ancora allo SCUM Manifesto scritto nel 1967 da Valerie Solanas, ha dichiarato: “La mia opera è basata sul modello di dichiarazione di guerra, sulla scientificità relativa alla necessità di eliminare il genere maschile per far formare il genere femminile”. Dopo Lynda Benglis – ricordo la sua celebre pubblicità su Artforum del 1974, dove l’artista si è fotografata nuda con un fallo gigante in mano -, Judy Chicago, Martha Rosler, Linder, Yoko Ono (la lista è lunga), trovo che l’opera-citazione anacronistica di Fumai non aggiunga molto, oggi, al dibattito sulla “questione femminile”. Questo è naturalmente il mio giudizio critico personale, ma quali sono le ragioni della giuria internazionale per le quali la sua installazione performativa ha avuto la meglio sulle opere presentate dagli altri artisti?
Non vorrei rispondere a questa domanda, nel senso che c’è un giudizio che è stato detto pubblicamente, ci sono state delle ragioni espresse e scritte dalla giuria internazionale. Io non faccio parte della giuria internazionale. Non voglio dare un giudizio sul lavoro di Chiara Fumai, perché in questo caso non è corretto, perché già è stato espresso da una giuria di altissimo livello. Posso solo dire che durante la giuria c’è stata una bellissima discussione dove tutti i giurati hanno espresso l’altissima qualità dei cinque artisti che hanno incontrato al Premio Furla. Chiara Fumai è un’artista a tutto tondo ed è soprattutto una grandissima performer. Ha fatto una presentazione alla giuria del suo lavoro molto buona e molto convincente, e questo ha portato a un giudizio più positivo del suo lavoro, rispetto agli altri.
Non pensi che i giurati internazionali abbiano optato per Chiara Fumai perché probabilmente conoscevano di più il suo lavoro, rispetto agli altri, avendo l’artista preso parte all’ultima edizione di Documenta?
Assolutamente no. La giuria internazionale ha speso almeno due ore, perché c’erano delle indecisioni, sul piatto c’erano le candidature di Chiara e di due giovanissimi. Volevano addirittura dare il premio ex aequo. Nessuno dei cinque giurati conosceva Chiara Fumai. Nessuno si ricordava il suo lavoro a Documenta. Hanno scelto quest’artista perché il suo lavoro ha convinto, non tanto quello presentato alla mostra, ma quanto il suo valore di artista-performer. Questo è il giudizio della giuria internazionale. Io sono stata semplicemente una che ha guardato il lavoro di una giuria.
Tra i selezionatori stranieri c’era Elena Filipovic, curatrice del WIELS di Bruxelles, che insieme a Filipa Ramos ha selezionato il duo Invernomuto. Tra i giurati era presente Dirk Snauwaert, direttore di WIELS, luogo scelto quest’anno per la residenza che ospiterà la vincitrice. Non pensi che paradossalmente gli Invernomuto siano stati sfavoriti? Se avessero vinto si sarebbe gridato al conflitto d’interesse.
Nella giuria internazionale, da due edizioni a questa parte, c’è il direttore dello spazio dove si svolgerà la residenza. Filipa Ramos ha invitato poi Elena Filipovic, che è una bravissima curatrice. La residenza è stata scelta dopo che le coppie curatoriali erano state già formate ed erano già al lavoro. Quando abbiamo visto che il WIELS era disponibile – ed era talmente importante avere la sua candidatura come possibilità di residenza per gli artisti – non abbiamo minimamente sottolineato il fatto che Elena lavorasse al WIELS. Sono giudizi di due persone autonome. Qual è il conflitto?
Visto che per statuto il direttore della residenza scelta è in giuria, se uno dei selezionatori propone un curatore o una curatrice dello stesso spazio forse spetta al comitato scientifico fare da garante. Questa è la mia perplessità. Tu non vedi il conflitto?
Non, io non vedo il conflitto. Le coppie dei curatori vengono chiamate molto prima per fare la ricognizione negli studi. Il lavoro era già iniziato. Vedevo più complicato e pesante rompere un’armonia, un lavoro che si stava già facendo per questa cosa. Non riesco a vedere un grande problema. Si fa tutto per far del bene per l’artista, per dargli la possibilità di andare a fare uno stage in un museo di altissima qualità.
In un premio c’è competizione…
Se i giurati fossero stati scelti prima, forse l’avremmo anche notata questa cosa. Per evitare proprio questo tipo di domanda… Ad ogni modo, la cosa non va a minare la qualità e la serietà dell’edizione del premio, dei candidati che sono stati invitati e soprattutto della scelta della giuria. Questa cosa non ha influito per niente. Alcuni di loro si sono accorti alla fine che c’era questa cosa, ma nessuno ci ha pensato.
Sono un sostenitore degli spazi extra-museali. In varie occasioni mi sono trovato a lavorare con luoghi non deputati all’arte, con tutte le sue difficoltà. La scelta dell’ex Ospedale degli Innocenti a Bologna come spazio per esporre le opere dei finalisti è senz’altro interessante. Gli spazi però non erano sufficientemente riscaldati e la temperatura era proibitiva. Ricordo alla prima edizione della Biennale di Singapore che gli organizzatori, considerata, al contrario l’alta temperatura e l’afa, avevano trasformato le sale per la proiezione dei lavori video quasi in celle frigorifere. Il risultato è stato che i visitatori non resistevano più di pochi minuti e rinunciavano a vedere i video. Non pensi che il freddo fosse veramente eccessivo per poter “godere” con calma delle opere esposte? Non bisognerebbe sempre garantire ai visitatori la fruizione ottimale dei lavori? È stato molto difficoltoso vedere le opere e il freddo non ha sicuramente favorito il tempo di assorbimento dei lavori.
D’accordissimo con te. Vedere le opere d’arte al caldo e al freddo è una cosa orribile. Metaforicamente abbiamo questo Add Fire di Jimmie Durham, quindi potrei risponderti che avevamo il fuoco che Jimmie ci sollecitava a tirare fuori da dentro di noi. Chiusa la metafora, abbiamo scelto lo spazio dei Bastardini perché era interessantissimo e permetteva soprattutto di avere degli spazi equi da offrire a ogni artista. Gli altri spazi offrivano delle condizioni troppo disparate e non eque. È una questione importante da tenere presente. Questa cosa ha vinto sul fatto che eravamo coscienti di andare in uno spazio per il quale abbiamo dovuto spendere una parte notevole del budget per renderlo agibile, con la luce. Purtroppo fare un impianto era proibitivo in termini di costi. Questo ha penalizzato il pubblico, soprattutto, e di questo me ne rammarico molto. Sono comunque assolutamente d’accordo con te che vedere l’arte o troppo al caldo o troppo al freddo non va bene.
La prossima edizione sarà tra due anni. Forse è prematuro chiedertelo oggi ma…
Se ci sarà…
Perché se ci sarà?
Perché è così faticoso, poco sostenuto. È così faticoso lavorare in Italia. In Italia ho soltanto degli attacchi. Se penso a tutti i budget e i soldi che la Fondazione Furla impegna per questo premio e tutte le relazioni che ha tirato fuori, le grandi opportunità e scambi che ha dato agli artisti è straordinario. Quello che invece abbiamo avuto indietro, come aiuto, come sostegno è zero. Otterrei di più se avessi intorno un affetto diverso e un sostegno diverso dal mondo dell’arte italiano. Fuori dall’Italia ricevo congratulazioni e apprezzamenti notevolissimi. Qua ricevo soltanto critiche. Non dico la nostra intervista, che è stata anche bella e interessante, e utile per me per capire come migliorare.
Prevedi di rivedere la formula del premio, nel regolamento, nel comitato scientifico, nei criteri di selezione e nelle partnership, ad esempio quella di lunga durata col MAMbo di Bologna?
Sono 13 anni che siamo in piedi. Quello che mi affatica di più è la non risposta da parte dell’Italia. Pensa che la Fondazione Furla non ha ancora ricevuto il riconoscimento dal Ministero dei Beni Culturali, che è una cosa importante per una fondazione. Non l’ha ricevuto nonostante in tutti questi anni abbia dato un sacco di sostegno. La struttura del premio forse va ancora più snellita. Forse si possono invitare ancora meno curatori. Avvicinarsi sempre di più al Turner. Una cosa però che cambia totalmente, che non è più per i giovani ma un premio per un riconoscimento alla carriera. Allora si fa una giuria internazionale che sceglie, ma a questo punto dovresti allargarlo non soltanto agli italiani, ma a uno sguardo internazionale. A ogni edizione ci interroghiamo. Questa struttura è stata molto amata e valorizzata dal mondo internazionale, mi ha convinto, ha convinto tutto il gruppo, era una struttura buona. Certamente ci ripenseremo… Sono stata anche tentata di portarlo fuori dall’Italia.
Daniele Perra
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