Studia, Piero, che con l’arte non si campa!
È stata la prima famiglia di Soncino ad avere il telefono in casa; l’unica in cui le donne, già negli Anni Venti, sapevano guidare. L’eccezionalità era di casa dai Manzoni, al punto da far sembrare quasi normale anche l’estro di quel figlio artista: caldamente spinto verso la laurea, perché non si sa mai... A mezzo secolo esatto dalla morte di Piero, a ricordarlo è la sorella Elena Manzoni di Chiosca.
A partire da questi giorni e almeno per tutto il 2013 ci sentiremo spiegare e raccontare, da più parti, della portata culturale di Piero Manzoni. Ci racconta chi era, fuori dall’arte, suo fratello? Che rapporto avevate?
Per me era appunto, semplicemente, mio fratello. E io ero la sua sorellina più affiatata: Piero è stato per quattro anni figlio unico, prima che nascesse nostra sorella. Quella, diciamo, più tranquilla, molto regolare. E poi sono arrivata io: ero magrissima, un ragnetto… ma non stavo mai ferma! Ero vivacissima, curiosa: partecipavo sempre alle sue cose, andavo ad aiutare il servizio alle sue inaugurazioni, a versare vino, preparare panini…
In casa come era presa l’inclinazione di Piero per l’arte?
Un giorno mio padre è arrivato a casa poco dopo aver avuto un malore in ufficio: è morto nel giro di un paio d’ore. Ma ha avuto il tempo di lasciare a mia madre una specie di testamento spirituale: le aveva chiesto di far laureare tutti i figli maschi; anche Piero, naturalmente, che era sempre stato bravissimo a scuola. Quindi mia mamma sentiva questo dovere nei confronti di nostro padre: da un lato aiutava Piero nella sua inclinazione per l’arte, soprattutto dandogli soldi; dall’altro però gli diceva: “Io te li dò, ma se dai un esame…”. Lei la pensava così: meglio avere una laurea, che dà sicurezza, perché l’arte non è detto che dia pane…
Un atteggiamento comprensibile, anche se in realtà la vostra non può definirsi una famiglia “normale”. Almeno non nel senso tradizionale del termine…
Siamo cresciuti in un ambiente sempre all’avanguardia, non ci rendevamo nemmeno conto dell’eccezionalità di Piero. Mia mamma, già negli Anni Venti, era stata obbligata dal padre a prendere la patente per essere il più possibile indipendente: non che l’abbia usata poi molto, ma ti dà la misura dell’apertura mentale e della modernità che respiravamo in casa. E dunque credevamo che tutti i giovani artisti, bene o male, fossero come Piero, non avevamo capito che lui era… a quel livello. È una consapevolezza che è arrivata dopo, quando è morto; quando sono cominciate ad arrivare dalla mia mamma le richieste da parte dei musei, soprattutto del Nord Europa, per avere opere e materiali da esporre.
Anche la città di Milano sembra non aver recepito subito il peso che Piero ha avuto per l’arte contemporanea.
La prima mostra dedicata a Piero, in uno spazio pubblico a Milano, è stata solo nel 1997, e grazie all’interessamento di Philippe Daverio e alle insistenze di Mudima. La città è così, lo è sempre stata: l’ho visto anche per quanto riguarda mia figlia Pippa [Bacca, N.d.R.]. Dopo la sua morte abbiamo ricevuto promesse da parte delle istituzioni, io stessa sono andata a Palazzo Marino per intavolare una discussione e ragionare su una mostra che la ricordasse; avevamo diverse cose che, con l’aiuto del Comune, si potevano fare. Poi non s’è fatto niente: andiamo avanti allora a fare le nostre piccole cose, con le nostre forze.
Francesco Sala
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