Una coop tutta bianca. A Milano
Volevano rivivere l’atmosfera del Jamaica, ritrovo spontaneo per chiacchiere d’artista. Ma hanno finito, in uno spazio ALER, per creare un nuovo angolo dove costruire, sperimentare ed esporre: breve storia di Scatolabianca. Nelle parole di Martina Cavallarin e Gianni Moretti.
Ha trovato spazio, in un openspace affittato dall’ALER a un passo dalla stazione di Porta Genova, nello scorso mese di dicembre. Ma era tempo che cercava casa a Milano. Orgogliosamente non profit, forte di quello status quasi cooperativistico che punta sulla condivisione più assoluta e sullo sviluppo di una cultura dal basso: Scatolabianca si getta nella mischia. Ad animarla è un board che mette insieme curatori, comunicatori e artisti; inedito comitato scientifico che seleziona progetti rigorosamente off. Fuori dall’idea tradizionale di mostra, guardando con maggiore curiosità a performance ed eventi unici. Come spiegano due delle anime della “scatola”: Martina Cavallarin e Gianni Moretti.
Martina Cavallarin: Quando abbiamo pensato a Scatolabianca, quando era ancora un’identità astratta, l’abbiamo immaginata come un luogo dove riunirci e parlare. Cercavamo un bar in periferia, qualcosa di poco costoso: non dove poi una birra ti costasse otto euro e ti mandassero via perché chiudono presto. Poi è arrivata l’associazione, che a un certo punto ha deciso di trovare un indirizzo fisso e stabile, anche se questa scelta significa indossare scarpe molto pesanti…
Scatolabianca funziona così: per aderire e sostenere le sue attività basta associarsi, come fosse un Arci o un Acli qualunque. Per essere parte integrante del sistema, quindi proporre e – previo assenso del comitato scientifico – esporre o “performare”, è necessario diventare socio-artista. Quindi discutere portfolio e progetti, mettendo in conto la possibilità di essere scartati. Lo spazio è come quell’amaro da dopo pasto: per molti, ma non per tutti…
Gianni Moretti: Altre realtà, dall’associazione alla galleria, ci attaccano e ci guardano con sospetto: cos’è che volete fare? Cosa siete? Non tutti capiscono il nostro modo di lavorare, i nostri obiettivi ma soprattutto il modo che stiamo usando per realizzarli.
MC: Il commercialista ci chiede continuamente se vogliamo passare a un’altra forma giuridica, dotarci di partita IVA per poter vendere opere, o anche solo partecipare a concorsi, bandi e cogliere opportunità che possano contribuire al sostentamento delle nostre attività.
E voi come rispondete?
MC: Siamo uno spazio dove fare tessuto: è quello che manca, oggi. A Milano come altrove. Il nostro statuto è chiaro: ci interessa dare opportunità ai giovani artisti, creare occasioni perché possano crescere e, insieme a loro, si possa crescere anche noi. Io ho 46 anni: se non mi interfaccio con Gianni Moretti che ne ha 34 perdo il passo. E lui che ne ha 34, se non si interfaccia con l’artista che ne ha 25 fa altrettanto: Scatolabianca è un luogo dove realizzare queste connessioni, non deve essere un giochino nostro. Anche se alle volte, all’esterno, passa erroneamente questo concetto.
Il giovane artista come si sintonizza sulla vostra idea di condivisione e partecipazione? Riesce a rispondere al concept di Scatolabianca?
MC: In realtà sono sempre molto chiusi. Sembrano intimoriti: poi la linea di demarcazione tra la timidezza e la presunzione non la riconosci mai… e questo non aiuta. Non è facile, in un Paese come il nostro, far passare il concetto dello spazio non profit: abbiamo alle spalle una storia molto confusa, con associazioni che si rivelavano poi vetrina per gallerie; non c’era e non c’è tuttora, forse, una linea di demarcazione netta, così come puoi riscontrare ad esempio a Berlino, tra l’attività commerciale, l’istituzione pubblica e lo spazio senza fini di lucro. Nell’Est Europa, dove vengono da una crisi atavica e hanno una diversa cultura dell’associazionismo, sono molto più palestrati di noi quando si tratta di lavorare in questo senso: sanno bene che una mano può tendere verso l’altra, che se si corre in cinque si fa una staffetta. E non è come avere nelle gambe un 10mila in solitaria…
Siamo tornati un po’ al cliché dell’artista monade solitaria, egoista ed egocentrico.
GM: Io, come artista, non avrei mai pensato prima di qualche anno fa di dedicare il mio tempo all’allestimento della mostra di qualcun altro. Perché temevo di perdere in qualche modo il mio ruolo e la mia identità; poi invece fruendo di questa cosa, facendola, mi sono reso conto che era semplicemente un arricchimento del mio percorso.
MC: Li senti solo quando c’è una mostra. Sembra che il focus di tutto sia questa coazione all’esibizione. A noi piacerebbe andare oltre; vorremmo che l’artista che inaugura da noi continuasse a farsi sentire per tutta la durata della mostra, chiedendoci di organizzare talk e incontri; portando ospiti, amici, collezionisti e semplici curiosi. Condividendo, insomma.
L’aspetto dialogico, questa volontà di parlare e condividere, è al centro di Who cares?, cartellone di incontri tra critici e curatori che rappresenta una delle novità della programmazione di Scatolabianca.
GM: Mi sono chiesto: qual è il percorso di ricerca di un critico e di un curatore? Volevo indagare quegli angoli in ombra, su cui di solito non c’è il tempo di soffermarsi, ma che poi sono importanti per capire il lavoro che sta dietro alla nascita di una mostra. Perché è quello che, in fondo, si fa tra artisti: quando ci si incontra in studio e si discute non tanto dell’opera, del prodotto finale, ma del processo generale che muove tutto.
Qual è la Milano che si osserva dalla finestra di Scatolabianca?
GM: La città è impaurita: vedi che tutti tendono a spendere energie per proteggere quello che hanno, quando invece andrebbero investite per allargarti. Tutti si muovono il meno possibile.
MC: A Milano non esiste più che dopo un’inaugurazione si vada a cena insieme. Ora: non è che debba finire tutto a tarallucci e vino, però veramente ognuno – una volta finito – va a casa sua, ognuno ha il suo mondo, le sue cose e non le condivide. Mentre abbiamo visto che creare tessuto, creare collegamenti, fa in modo che nasca sempre qualcosa. Per cui sì: c’è bisogno di luoghi come Scatolabianca.
Francesco Sala
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