Apichatpong Weerasethakul. Storie Primitive
Fino al 28 aprile, all'Hangar Bicocca di Milano, Apichatpong Weerasethakul espone “Primitive”. La videoinstallazione nasce da un episodio accaduto in Thailandia nel 1965, una ribellione di agricoltori che diede luogo a una cruenta battaglia…
Alla ribellione di agricoltori raccontata in Primitive di Apichatpong Weerasethakul (Bangkok, 1970) seguirono lunghi anni di violenze che portarono alla fuga degli uomini, lasciando il villaggio abitato solo da donne e bambini. Gli adolescenti del luogo, figli e nipoti dei ribelli di un tempo, con i quali Weerasethakul ha vissuto, in Hangar danno vita a un’opera d’arte partecipata, dove la vitalità e l’energia dei ragazzi si fondono con il linguaggio narrativo dell’artista.
Che cosa ambisce a raccontare Primitive?
Mi piacerebbe condividere i miei ricordi di un villaggio thailandese del nord-est, regione nella quale sono cresciuto. Quel luogo è sopravvissuto al brutale intervento dell’esercito, perpetrato per vent’anni, dagli Anni Sessanta agli Ottanta. Ho lavorato rimanendo in loco e avvalendomi della collaborazione di alcuni adolescenti che non hanno avuto esperienza della prima ondata di violenza. Così assieme, tanto per immaginare quanto per rappresentare la loro pace, abbiamo inventato paesaggi, visioni e scenari, semplicemente creando. Dando vita a pellicole, video musicali e, ovviamente, a una navicella spaziale.
Confrontandosi con gli spazi dell’Hangar Bicocca, il tuo lavoro assumerà un nuovo significato?
Sì, credo che questo progetto si trasformi sempre in base alla tipologia del luogo che ne ospita l’installazione. Riguardo all’Hangar, e ai suoi spazi massicci e potenti, ho deciso di estendere i video facendoli diventare una sorta di unità di memoria per gli spettatori, che potranno usufruirne a loro piacimento, scegliendo un senso casuale. Non credo che ci saranno alterazioni o cambiamenti nel significato, quanto piuttosto indizi sparsi che però tengono conto di una narrazione interconnessa. Primitive non sussisterà dunque in un racconto definito, ma sarà perlopiù vivibile come lo svolgimento di un’esperienza sensoriale.
Hai affermato: “Come regista, tratto i miei lavori come se fossero figlio, o figlie. Non mi interessa sapere se la gente li ama o li rifugge, per il fatto che li ho creati con le migliori intenzioni e sempre con enormi sforzi. Se questa mia sorta di progenie non può vivere nel proprio Paese di appartenenza, per qualsiasi motivo, bisogna allora lasciarla libera. Non c’è alcuna ragione che io li lasci mutilare dalla paura del sistema. Altrimenti non esiste nemmeno alcun motivo che si continui a produrre arte”. Questa tua idea di arte sta cambiando o si sta rafforzando con il tempo?
La frase è stata una mia reazione diretta alla follia del sistema di censura in Tailandia. Le autorità hanno ordinato di tagliare alcune scene di uno dei miei film. A partire da quel momento, ho cambiato il mio atteggiamento nei confronti di tutte le mie opinioni, perché adesso, per me, è diventato interessante far fronte alle opposizioni della censura. Alla fine, infatti, ho mostrato i miei film apportando i tagli imposti. Ma invece di ricucire le due parti della scena assieme, ho inserito, nella parte mancante, gli allungamenti scuri della pellicola. Così a un certo punto il cinema, durante la proiezione, si è oscurato, mostrando il nulla per cinque minuti. È stata una sorta di dichiarazione frontale, davanti al pubblico: se vogliamo continuare a vivere nella totale sottomissione, allora guardiamone i suoi effetti assieme. È per questo motivo che dobbiamo continuare a lavorare e a guardare al nostro lavoro come una sfida ai vecchi sistemi di potere.
Spesso, durante i tuoi progetti da regista, coinvolgi diversi artisti: da Michael Shaowanasai a Krissada Terrence, pop singer. A parte gli aspetti multidisciplinari che il tuo lavoro suscita, qual è il personaggio, il ruolo che più ti attrae e perché?
Forse, il mio interesse per Primitive, ad esempio, è una sorta di sentimento latente, perché resto ancora profondamente affascinato dalla storia politica della Tailandia. Di solito guardo all’esercito e alla monarchia come alle due forze principali che hanno il potere di mutare il nostro modo di vivere in questo Paese. Così, spesso mi ritrovo a dovermi confrontare con i temi del controllo, della propaganda, della fede e dell’ignoranza. Temi che spesso collego al concetto di malattia, che a me è diventato molto caro. Il mio ultimo motivo di interesse, infatti, è il sonno trattato proprio come una malattia.
Nel 2005, The Office of Contemporary Art and Culture ti ha onorato del prestigioso Silpathorn Award for Filmmaking. A tuo parere qual è il passaggio chiave, il momento che ha portato i tuoi progetti cinematografici a trasformarsi in installazioni artistiche? Quale tipologia di tangenza, di aderenza esiste fra questi due media?
Il cinema e il mondo dell’arte, per me, sono sempre stati interconnessi. A partire dal 2000, quando un mio amico allestì uno dei miei corti nelle stanze di una galleria d’arte privata. Siccome ho un passato (e un bagaglio) da architetto, sono costantemente intrigato da come lo spazio giochi un ruolo nella percezione del tempo narrativo, tradotto in immagini in movimento. Io incrocio e anticipo, allo stesso tempo, le cosiddette forme rappresentative cinematografiche con le arti visive. E, in qualche modo, penso che alcuni dei miei progetti non possano essere catalogati. Ma questo non è un problema.
Qual è l’idea di uomo di fronte al futuro, concetto che deve emergere dalle tue videoinstallazioni?
Lui rappresenta il passato di cui vogliamo fare esperienza. Forse una figura idealizzata. Il mio futuro è ancora basato sull’agricoltura e il mio uomo è un contadino.
Da che cosa dipende la spiritualità sognante che le tue installazioni portano con sé? È una dimensione voluta, cercata, o è una sorta di espressività raggiunta?
No, certo, se interpreto correttamente la tua domanda. Esistono molti livelli di lettura della realtà nella nostra vita. La religione è un’illusione del potere. Qualsiasi fantasma non è più reale del Papa in persona. Sogni. Aspirazioni. Paura. Mi sto facendo lentamente avvolgere da queste scene di allucinazione, radicate nel mio lavoro.
Potresti svelare qualcosa di più del tuo futuro progetto, dal titolo Utopia?
È un progetto realmente utopico perché per il momento è accantonato. Si tratta di un progetto molto, molto costoso che credo possa attualmente esistere solo nella mia immaginazione. In questo momento sto realizzando una videoinstallazione per la Biennale di Sharjah. Ed è centrato sulla vita di un manovale di Bengali che dorme, stanco dal lavoro, sognando attraverso i secoli.
E a proposito dei tuoi programmi futuri?
Un film che sto scrivendo proprio adesso e che, spero, si riesca a girare quest’anno. Riguarda sempre un uomo che dorme, ma questa volta in Tailandia, riuscendo a condividere le proprie visioni con una casalinga.
Ginevra Bria
Milano // fino al 28 aprile 2013
Apichatpong Weerasethakul – Primitive
a cura di Andrea Lissoni
HANGAR BICOCCA
Via Chiese 2
02 853531764
[email protected]
www.hangarbicocca.it
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