Buon compleanno Bilbao
Qual è il bilancio che si può fare, a quindici anni dalla sua costruzione, sul "caso" Guggenheim di Bilbao? Quali sono le influenze che il museo progettato da Frank O. Gehry ha avuto sulla regione in cui si situa, ma anche sulle politiche culturali contemporanee? È ancora un modello per la progettazione architettonica e per la valorizzazione del territorio?
STEFANO MONTI
docente di management delle organizzazioni culturali – iulm, milano
Il museo di Bilbao è costato oltre 150 milioni di euro, somma pagata per metà dal governo regionale basco e per l’altra dalla provincia di Biscaglia. Il terreno invece è stato donato dalla città. 30 milioni la somma destinata, sul costo totale del progetto, all’acquisto di una collezione permanente. 10 milioni il prezzo pagato alla Fondazione Guggenheim per l’utilizzo del marchio. Secondo il report ufficiale del museo (anno 2004) si sarebbe dovuti rientrare dell’investimento durante i primi sei anni, tuttavia quest’asserzione andrebbe esaminata più attentamente. In linea di massima gli effetti completi si dovrebbero misurare nel 2017, e in considerazione di ciò il Guggenheim Bilbao può essere considerata un’operazione ad altissimo rischio.
Una disamina di questi dati rende evidente anche a colpo d’occhio come il fenomeno Guggenheim abbia esaurito tutte le potenzialità durante i primi anni, e che il riportarlo ancora oggi, a distanza di quindici anni, come una best practice museale non abbia reali fondamenta. È senz’altro tra i primi case history in tema di riqualificazione territoriale e turismo culturale, tuttavia molti sono i dubbi a riguardo, a partire dall’effettività delle ricadute positive di un franchising museale e dall’efficacia di una politica di valorizzazione e promozione del territorio sin troppo impersonale.
HANS ULRICH OBRIST
critico d’arte e curatore. condirettore della serpentine gallery – londra
Credo che una risposta al “paradigma Bilbao” si possa trovare nell’opera di Cedric Price, un architetto visionario morto nel 2003 all’età di 69 anni. Il suo progetto più importante in questo senso – non realizzato – è il Fun Palace (1961-1974), un’architettura che sposta l’attenzione dall’esterno alla complessità interiore della costruzione. La sua convinzione era che gli edifici dovessero essere abbastanza flessibili da permettere alle persone di adattarli ai bisogni del momento: in questo modo il tempo, insieme alla larghezza, l’altezza e la lunghezza, diventa la “quarta dimensione” della progettazione. Price immaginò un edificio che non sarebbe durato per sempre e che non avrebbe avuto bisogno di restauri perché progettato per scomparire dopo un lasso di tempo calcolabile tra i dieci e i vent’anni. Il Fun Palace, nato dalla collaborazione con Joan Littlewood, sarebbe dovuto essere una combinazione di elementi fissi e mobili. A seconda del mutare delle situazioni e dei bisogni, le strutture e gli elementi potevano essere aggiunti o tolti. L’idea centrale è che l’edificio possa essere alterato finché viene utilizzato. Secondo Price, questo avrebbe “permesso a chi lo utilizza di decidere liberamente cosa fare dopo”.
Flessibilità, capacità di reazione, transitorietà, relatività, gioia. Sostenere questi principi guida nel campo della progettazione urbana, liberando l’essere umano all’interno della struttura, in opposizione alla dottrina granitica che favorisce un’architettura statica, inflessibile e costrittiva, ha reso Price una vera icona, non solo tra gli architetti ma anche per molti artisti e intellettuali.
DAVIDE PONZINI
ricercatore, dipartimento di architettura e pianificazione – politecnico di milano
Il museo di Gehry ha certamente consolidato l’identità di un’area in trasformazione e reso Bilbao celebre. È però anche il fulcro della retorica del “Guggenheim effect”, che da anni legittima politiche urbane e culturali di varia qualità. Questa retorica è sostanzialmente infondata perché racconta il rilancio economico di Bilbao senza considerare i grandi programmi di sviluppo infrastrutturale, urbano e sociale realizzati nei Paesi Baschi in quegli stessi anni. Per metterla alla prova dei fatti, basti pensare a quanti progetti di musei Guggenheim siano stati abortiti – a vari stadi di avanzamento – in città come Helsinki, Guadalajara o Vilnius (progetto di Zaha Hadid). Ho approfondito questi temi nel libro Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, realizzato con la collaborazione del fotografo Michele Nastasi.
CATTERINA SEIA
cultural manager
Sono passati solo quindici anni, ma sembra un’altra era. Nonostante i detrattori, il titanio ossidato, i costi di manutenzione alle stelle per l’umidità, il capolavoro di architettura decostruttivista di Gerhy fa del museo di Bilbao il caso della fine del secolo scorso: il centro avveniristico, cuore del piano intrapreso dall’amministrazione pubblica del País Vasco per la rivitalizzazione di un’area depressa come la provincia di Vizcaya, affidato a una realtà internazionale come il Guggenheim, alle sue competenze e forza di copertura mediatica. Questi gli ingredienti del successo. Per dirla con Simon Anholt, un progetto identitario di costruzione di un brand territoriale a base culturale che è rimbalzato e ha creato epigoni ad ogni latitudine. Continua a crearne.
Dagli esordi sono stati introdotti processi per valutare l’impatto sulla sfera socio-economico-ambientale dei 166 milioni di euro dell’investimento iniziale, oltre al numero dei visitatori nel 2011 che si è avvicinato al milione (di cui oltre il 60% stranieri) e ai 6mila posti di lavoro generati. Ma forse oggi in Occidente non abbiamo più bisogno di monumentalità, ma di ripartire dalle comunità, per un progetto partecipato di territorio, in cui il museo, ovunque si trovi, abbia una ragion d’essere sociale, sia esso stesso una comunità educante e propulsiva, oltre le sue mura. Questa è oggi la nostra pedagogia del coraggio, in un’Italia in cui il 59% di cittadini non entra in un museo in tutta la vita e, come rileva l’Ocse, gli analfabeti di ritorno toccano il 47% e il 29% dei maschi quindicenni non sa capire un articolo di giornale.
MICHELE TRIMARCHI
docente di economia della cultura – università di bologna
Che si tratti di un’icona ben solida c’è poco da dubitare. Peccato che le icone nascano per il bisogno di conforto dei tanti idolatri che affollano il dibattito culturale. Tra quanti hanno immaginato il Museo Guggenheim di Bilbao come il modello perfetto da replicare, magari tanti non ci sono mai entrati o non l’hanno visto dalla sponda del Nervión o dal ponte di Calatrava.
La storia è complessa: parte dalla riqualificazione dell’intera città, colloca il nuovo museo su una magnifica passeggiata fluviale, in una parola restituisce l’offerta culturale al tessuto urbano e alla comunità territoriale. Tanto meglio per gli appassionati di tutto il mondo che visitano uno spazio bello e ricco di opere d’arte, di mostre incisive, di cose culturali e non una cattedrale nel deserto. In sintesi, c’è dentro una lezione di metodo e di strategia che non può essere copiata e incollata, ma che può darci indicazioni su come si dovrebbe ridisegnare la mappa della cultura nei prossimi anni. Soprattutto in Italia.
ROBERTA BOSCO
giornalista – el país
A quindici anni dalla sua inaugurazione, considero che il principale risultato ottenuto dal Museo Guggenheim sia stato quello di essere riuscito a collocare una città come Bilbao, industriale, grigia e con poco movimento internazionale, non solo nel circuito del turismo artistico e culturale, ma in generale nella “mappa mentale” della gente.
Nonostante le critiche di chi considera un errore usare l’arte e la cultura per promuovere sviluppi urbanistici e turistici, molte città spagnole hanno costruito musei di grandi firme cercando di generare le stesse dinamiche, ma con scarsi risultati. L’accoppiata vincente tra la gastronomia basca e le iconiche forme dell’architetto Frank Gehry non si è ripetuta. Inoltre ha offerto un programma di qualità, con artisti e proposte espositive che probabilmente non sarebbero arrivate in Spagna o non con tale magnitudine, come la monografica di Anselm Kiefer o le mostre di arte russa e africana, per citare solo tre delle più spettacolari e riuscite.
CRISTIANA COLLI
ricercatore sociale, curatore progetti e programmi culturali – fondazione symbola
Tra gli altiforni e la spirale di Richard Serra ci sono una manciata di anni, ma anche la plastica rappresentazione di una modernizzazione possibile. C’è lo slancio lucido di una governance che chiama intelligenze, sviluppa strategie, progetta infrastrutture di relazione, riconfigura percezione, visione e missione di una città e di un territorio. Così Bilbao, per il tramite del Guggenheim – un’icona nella shortlist dei desideri planetari -, è diventata un paradigma ad altissimo contenuto simbolico, un ipertesto, ben oltre la magnificenza architettonica gli immaginari la policy di una corporation dell’arte.
Ma la forza visionaria del Guggenheim di allora è oggi nella dissipazione di luoghi temporanei e permanenti fatti di poetiche ipermoderne allo stesso tempo classiche e di prossimità. Enzimi, dispositivi, hub di comunità, cortocircuiti dell’accesso. Prima che alla disciplina, all’appartenenza e al senso.
FRANCESCO MORACE
sociologo e scrittore, presidente di future concept lab
Con la realizzazione del Museo Guggheneim di Bilbao progettato da Frank O. Gehry – un già maturo progettista visionario – si afferma la visione di un futuro arredato da episodi architettonici isolati. L’architettura è tornata in questo modo a essere – come con i templi dell’Antica Grecia o le cattedrali rinascimentali – un’icona artistica, un simbolo a volte denso di futuro, regalato al territorio, abbandonando però le pretese di trasformare socialmente il mondo adottando una visione integrale.
Questa è la dimensione che ha fatto la fortuna delle archistar (architetti protagonisti dello star system) dagli Anni Novanta in poi e che vede la felice collaborazione fra istituzioni culturali, luoghi pubblici, enti privati (musei, centri culturali, fiere, aeroporti) e grandi architetti delle più diverse estrazioni. Da Philippe Starck a Norman Foster, da Santiago Calatrava a Rem Koolhaas, da Herzog e De Meuron a Jean Nouvel, da Toyo Ito a Zaha Hadid. Il Guggenheim di Bilbao inaugura quindi una visione che riguarda più dei lampi nella notte, degli animali strani precipitati sul territorio urbano, delle icone riconducibili a quel segno artistico da cui tutto era partito. E così il circolo virtuoso tra avanguardie artistiche affamate di futuro e disciplina architettonica alla ricerca di un destino sembra chiudersi.
GUIDO ROMEO
giornalista – wired
Il museo è probabilmente uno dei migliori investimenti della città negli ultimi decenni. È stato al centro di un posizionamento di Bilbao a livello internazionale e ha permesso al territorio di rilanciare un’economia rallentata dalla deindustrializzazione. Ha attirato turisti e investimenti, ma anche talenti, e creato capacità di innovazione e una “vibe” decisamente originale.
Quello che però spesso passa in secondo piano è che il Guggenheim da solo avrebbe portato a ben poco. Il progetto è stato vincente perché la città è riuscita a collocarlo in un piano organico dell’area che comprendeva la bonifica ambientale, la ristrutturazione urbana e l’investimento sui giovani. Credo che questa capacità di pianificazione sia la lezione più importante e che sarebbe bello veder applicata anche in Italia con le strutture più recenti.
a cura di Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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