Federico Solmi: come ti conquisto l’America
Graffianti, sarcastici, spesso irriverenti e anche un po' arrabbiati: sono i film di Federico Solmi. Storia di un italiano che, sudando, a New York ce l’ha fatta. E intanto c’è una sua personale da Postmasters, proprio durante l’Armory Show.
Federico Solmi (Bologna, 1973) quattordici anni fa arriva a New York per fare l’artista e, dopo tanto lavoro, nel 2009 ottiene il prestigioso John Simon Guggenheim Memorial Fellowship, con cui la fondazione Guggenheim di New York produce il suo ultimo lavoro. Ora è in mostra nell’ambiziosa personale che la galleria Postmasters gli dedica fino al 16 marzo. Italiano, bad boy, self made artist e newyorchese di adozione: come Maurizio Cattelan.
Con il film Song of Tiranny, che presenti a New York da Postmaster, chiudi il secondo capitolo della trilogia Chinese Democracy and the Last Day on Earth. Un lavoro monumentale, tra film animati e dipinti.
È un film che amo e che ha tante novità a livello tecnico. Per la prima volta nella mia carriera sono riuscito a immergermi totalmente nel personaggio.
Racconti una Cina da fine del mondo.
L’ascesa al potere di un folle tiranno assetato di gloria i cui riferimenti culturali sono gli Stati Uniti, i reality spazzatura e la corruzione di Washington e Wall Street.
Dal punto di vista tecnico, che evoluzioni ha avuto il lavoro?
Gli scenari sono costruiti con tecniche digitali derivanti dai videogiochi, usando i disegni e i dipinti che preparo nel mio studio. Per animare i protagonisti, ho usato motion captures devices.
L’America ha paura della Cina?
Teme la sua aggressività, è una nuova paura da “fine imminente”, che si rinnova dopo la Guerra Fredda. Il debito americano è in mano ai cinesi, le multinazionali chiudono in America e riaprono in Cina, l’Economist mostra la prima portaerei cinese attraccata vicino a un’isola contestata ai giapponesi.
Nel video, la Cina invade l’America.
L’armata cinese arriva a New York dopo aver schiavizzato l’intera umanità. Creano un campo di sterminio dove rinchiudono gli agenti di Wall Street. Poi scappano dal pianeta, ormai depauperato, con un razzo.
Nel 2010, con Douche Bag City, trattavi il problema di Wall Street.
La finanza è il cancro dei tempi moderni, hanno bruciato i risparmi di milioni di persone, come se stessero giocando al lotto o ai cavalli. Una vergogna.
Come è nata l’idea della trilogia?
Leggendo il libro di un geologo americano, Jared Diamond, sul crollo delle civiltà, dal titolo Collapse: How Societies Choose to Fail or Succeed. Volevo riflettere sulla fine dell’umanità, che secondo me avverrà per l’errore di un leader politico.
Cosa racconta il libro?
La storia dell’isola di Pasqua nel Pacifico: era un paradiso ed è finita in inferno. La popolazione, divisa in tribù, si fa guerra fino a esaurire gli alberi. La terra è povera, la ricrescita è lenta. Alzano statue e non pensano al futuro. Un bel giorno il legno finisce e addio barche per la pesca. Sono finiti con il mangiarsi l’un l’altro. Nei loro resti ossei ci sono le prove.
E vivevano in un Paradiso.
Si chiama exploitation: esaurire le risorse di un pianeta. Può darsi che anche la nostra fine sia vicina. Accade quando non c’è nell’umanità un’ambizione più alta che fare denaro.
Una visione pessimista, la tua.
In America ora venerano il real tv show The Kardashian, tre sorelle che passano le giornate tra lusso e vanità. È il livello successivo dopo Paris Hilton, il segno di un declino morale. È come per l’Isola di Pasqua o la fine degli Aztechi. A loro è successo, perché non potrebbe succedere anche a noi?
In effetti…
L’individuo ormai non può far nulla, il nostro futuro è in mano a politici troppo spesso irresponsabili, mediocri, schiavi della finanza e dei banchieri.
Adesso, a cosa stai lavorando?
Una grande installazione per Zona Maco México, la fiera di arte contemporanea di Città del Messico di aprile. Jerome Zodo, il mio gallerista italiano, ha preso un grande stand vicino a Continua, Barbara Gladstone e altre grosse gallerie.
Le dimensioni sono importanti?
In questo momento faccio grandi formati, perché mi esaltano e mi fanno rendere al massimo.
Quanto costi ora?
Un’opera medio-grande è tra i 20 e i 40 mila dollari. Tutte le opere grandi sono state vendute a New York, Los Angeles, Miami o Londra. Un paio molto belle anche in Italia.
Bologna è la tua città, com’è andata Arte Fiera?
Molto bene, hanno comprato un’opera per la collezione. E pensare che, solo quattro anni fa, proprio lì ero stato denunciato e mi avevano sequestrato le opere.
Qualcosa è cambiato.
I curatori e i collezionisti italiani si stanno accorgendo che io sono da diversi anni uno dei pochi italiani spesso presente a tante rassegne d’arte internazionale.
Gli scandali fanno bene alla notorietà?
Non servono a niente, se non c’è in parallelo una crescita di carriera.
Il lavoro nuovo che ti sta eccitando di più?
Le nuove opere, che chiamo “dipinti animati”, dipinti in cui inserisco la videoanimazione.
Che soggetti tratti?
Soggetti provenienti dai miei video, che sono il punto centrale del mio lavoro. Mi sono divertito molto a manipolare l’immagine della banconota da 100 dollari.
Cosa succede nei dipinti animati dei dollari?
Per esempio, il tiranno parla allo spettatore. In principio è fermo e muto, poi muove gli occhi e inizia a parlare di sé dei suoi progetti folli di invadere il mondo.
Che edizioni hanno i tuoi film?
I video di Chinese Democracy sono edizioni di dieci. Mi hanno occupato per due anni. Diverse edizioni sono state vendute. I precedenti sono sold out, per i miei collezionisti i video sono oggetti di culto. Per gli ultimi video ho creato dei box speciali, interamente decorati e dipinti a mano. Ogni edizione è diversa dall’altra.
La tua bottega è piena di assistenti, come spartisci i compiti?
Tutte le mie opere richiedono un lavoro lunghissimo di preparazione, avere delle persone preparate ad aiutarmi mi ha permesso di raggiungere una qualità sempre più alta. Io controllo ogni dettaglio di ogni fase creativa e lavoro personalmente su ogni dipinto, disegno, video o scultura. Non desidero creare una factory, dove l’artista arriva in giacca e cravatta e gli assistenti lavorano per lui. Mi piace sporcarmi le mani e far parte delle mie opere.
Alla vernice della mostra di New York c’era molta gente. Queste vernici sono importanti o soltanto un rito di passaggio?
Sono venuti critici come Jerry Saltz e Roberta Smith. Non erano mai venuti alle mie precedenti mostre, quindi speriamo bene.
Postmasters è una delle gallerie più autorevoli di New York.
Tamas e Magda, i galleristi, hanno una storia interessante: sono venuti qui 35 anni fa per fare il teatro d’avanguardia, lasciando l’Ungheria. Hanno aperto una galleria a Chelsea. Sono persone inusuali per questo business, fuori dagli schemi, come lo sono io. Per me è un passo importante perché sono tra le gallerie frequentate non soltanto da collezionisti, ma anche dagli intellettuali.
All’Istituto Italiano di Madrid cosa farai?
Una grande mostra, inaugurazione 7 novembre 2013. L’Istituto farà anche un bellissimo libro. Devo ringraziare il direttore Carmelo Di Gennaro, che incontrai a New York un paio di anni fa.
Su che altro lavori?
Sto sviluppando nuovi personaggi, faccio ricerca. Sto leggendo molti libri sulla guerra civile americana, discorsi di Mandela, Mussolini, Luther King, o Lincoln, che per me rappresenta il grado di saggezza più alta della cultura americana; è la prima volta, nella mia carriera, che mi interesso a un personaggio che non sia un balordo, forse sto invecchiando.
Alla Pratt Gallery, dell’omonima università a New York, prima delle elezioni hai esposto la tua satira su Wall Street.
Un lavoro che nel 2010 mi ha fatto fare un salto di qualità. Eleanor Heartney, studiosa legata al mondo accademico e autrice di libri Phaidon (i suoi testi sono dei classici, come Postmodern heretics) mi ha invitato. Per me è significativo, perché è la massima esperta degli artisti detti “troublemaker”, artisti irruenti, irrispettosi, blasfemi.
E tu sei un troublemaker artist.
Io parlo di cose legate a quel che accade ora e che forse nessuno ha il coraggio di dire.
Hai vinto il Fellowship del Guggenheim, come hai fatto?
Ho mandato esempi di lavori fatti, come Rocco never die e The Evil Empire, proponendo come lavoro nuovo la trilogia Chinese Democracy. Mi ha cambiato la vita, ho lavorato duramente, nessuno mi ha regalato niente.
40mila dollari sono tanti soldi.
Li avevo già spesi prima di prenderli. Appena raggiungo un traguardo io ributto tutto dentro nello studio, nel lavoro. Qui c’è un proverbio: “Big risks big rewards”.
Come funziona il collezionismo per te? Negli Usa è un motore.
Il grande collezionista americano non vuole solo acquistare un artista ma vuole frequentarlo, aiutarlo e procurargli altre occasioni importanti.
Mi racconti un rapporto in concreto?
L’erede di una grande multinazionale della tecnologia mi invita un paio di volte all’anno a colazione per parlare. Ha comprato tutti i miei video e altre opere, e mi ha segnalato a diversi curatori e collezionisti, tra cui quelli della Biennale di Santa Fe, nel 2010, dove partecipai insieme ad artisti come Paul Chan, Kara Walker, Raymond Pettibon e Thomas Demand. Mi ha dato il lasciapassare per l’alta società americana.
A Miami erano in tre gallerie a portare tue opere.
Sì, Jerome Zodo e Luis de Jesus a Pulse e Postmasters a Seven.
Di che è fatta la tua carriera?
Tanto lavoro, scommesse e grandi rischi. Ero la persona meno adatta per fare l’artista, ma ce l’ho fatta. Sono autodidatta, arrivato qui da immigrato, però se guardi il mio curriculum sono più avanti di tanti usciti da Yale o Columbia.
Cos’hai fatto arrivato a New York?
Per due anni ho preso il lusso di educarmi usando la città come scuola. Le prime mostre le ho fatte a Brooklyn.
Perché sei partito?
Cercavo la meritocrazia e sono venuto qui.
Nicola Davide Angerame
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati