Giulia racconta Mafai. Parte I
Esce nelle librerie “La ragazza con il violino” e noi intervistiamo l'autrice, Giulia Mafai. Un racconto in due parti nell'infanzia e nella carriera della scenografa e costumista figlia di Antonietta Raphael e Mario Mafai, cui è dedicato il testo edito da Skira. Una storia che dipinge il volto di un'epoca, della sua arte e del suo cinema, attraverso i suoi protagonisti.
La sua è stata una infanzia “immersa nell’arte”. Nelle prime pagine del libro, lei dice che da sempre ha sentito che la sua famiglia era diversa. Perché?
A quell’epoca essere figli di artisti non era semplice. Alle elementari, quando mi chiedevano il mestiere di mio padre e dicevo “il pittore!”, ci tenevo poi subito a sottolineare che si trattava di un “pittore di quadri” e non edile. Inoltre, eravamo antifascisti. Non avevo la divisa della piccola italiana, non andavamo al sabato fascista. Per fortuna, malgrado le avversità, essere artisti ti metteva nella condizione di outsider e quindi questo ci comportava meno problemi del dovuto, anche se accentuava la nostra diversità. Tuttavia, non eravamo religiosi, non facevamo la comunione e la nostra cultura di origine era ebraica. Insomma, con le leggi razziali le difficoltà si acuirono, tanto che le mie sorelle e io fummo escluse dalla scuola e isolate dagli altri bambini. In più avevamo pochi soldi, ci vestivamo alla bohèmien e ci trovavamo spesso nella condizione dii giustificare le nostre scelte di vita…
Dalla lettura delle sue pagine, sua madre emerge come una figura centrale della sua vita. Che rapporto aveva con i genitori?
Abbiamo fatto di questa diversità una medaglia. Mia madre è riuscita a farci capire che era una qualità non penalizzante. Ad esempio, quando avevo quindici anni, ebbi una crisi. Sai come sono gli adolescenti: dicevo che non avevo nulla da mettere, che non avevo il coraggio di uscire e mia madre ne fu molto imbarazzata. Ma è stato un attimo, in realtà, un episodio che non ha mai rappresentato realmente ciò che pensavo. L’idea della mia famiglia era che essere artisti era una sorta di stato di nobiltà. Ci sentivamo la “parte aristocratica” del Paese, che parlava d’arte, di cinema, di letteratura. Non avevamo una lira, ma eravamo come nobili decaduti. Certo, vivere con il segreto dell’antifascismo, della nostra laicità, non era sempre facile da sopportare.
C’è stato poi un momento in cui le cose sono cambiate dal punto di vista economico?
In realtà questa situazione non ha mai avuto realmente fine. Certo, abbiamo potuto godere di una certa tranquillità, studiavamo, facevamo dei viaggi, ma non eravamo ricchi. Mamma non aveva mercato e mio padre non ha mai abusato del suo. Mafai ha dipinto molto poco. Per intenderci, sto curando il suo catalogo generale e non arriviamo ai 1.000 pezzi, per dirla in numeri. Mio padre diceva sempre “avrei potuto riempire le case degli italiani con i fiori secchi”, ma non l’ha mai fatto. I miei erano – e io ho preso da loro – negati a fare commercio. Mio padre aveva dei collezionisti affezionati, quello sì. Ad ogni modo i soldi in casa mia non hanno mai girato tantissimo, avevamo ciò che si dice la sufficienza. Ti dico solo che quando mio padre negli Anni Sessanta ha cambiato studio, andando via da via Margutta, gli ho dovuto imprestare io i soldi per il trasloco. Poi me li ha ridati, ma rende l’idea.
Com’è la vita di coppia per due artisti di successo?
Alla base del rapporto tra i miei genitori c’era un grandissimo rispetto e un’enorme stima, mai crollata. Erano entusiasti del lavoro l’uno dell’altra, anche se sul piano dell’arte erano in perfetta armonia e grande disaccordo, perché avevano una visione dell’arte molto diversa e pochi punti in comune. Sulla vita privata invece era dura. Mia madre era molto rigorosa, tanto è vero che nella sua vita si è innamorata solo di mio padre e non per un fatto di moralità. Quando mio padre è diventato un artista noto, aveva parecchie signore che gli facevano il filo. Ad una feci lo sgambetto. E ci tenevo, in pubblico, a chiamarlo papà ad alta voce.
Chi erano i vostri amici?
Ma sai, gli artisti sono un po’ come gli avvocati, come i medici. Si conoscono un po’ tutti e si frequentano tra loro. Noi conoscevamo Corrado Cagli, Mirko, Renato Guttuso, Eugenio Montale, ad esempio. Pensa che Camillo Sbarbaro dava ripetizioni di latino a mia sorella! Tra gli scrittori e i poeti c’erano anche Leonardo Sinisgalli, Libero de Libero e Sandro Penna, che era poverissimo…
Come nasce La ragazza con il violino, grande omaggio alla memoria dei suoi genitori?
In un modo curioso. Mia madre veniva da un villaggio lituano, vicino Vilnius, molto difficile da trovare persino sulla carta geografica. Durante una visita al Museo Ebraico di Parigi, mi trovavo nel cortile e su una parete c’erano incisi nel marmo i nomi di circa 400 deportati. A un certo punto, scorrendoli, vidi quello di una donna proveniente da Ekaterinoslav. Questo luogo ha riportato alla mia memoria una realtà che per me era sempre stata un po’ mitica. Mia madre raccontava spesso aneddoti e non si capiva mai se si trattava di cose vere o di fantasia. Leggere sulla lapide “Ekaterinoslav” mi ha riportato ai suoi racconti. Il libro, inizialmente, non doveva essere un libro, ma una lettera indirizzata alle mie figlie Ariel e Mirta, alle quali raccontavo dei loro nonni, della loro storia. A poco a poco, mi ha preso la mano e ho cominciato a scrivere moltissimo. È stato come se non stessi scrivendo io, è stato un torrente. Negli ultimi tre anni ho ripreso questo testo in mano parecchie volte e l’ho fatto leggere ad alcuni amici. Mi hanno incoraggiato a continuare. Ed è diventato un libro.
Santa Nastro
Giulia Mafai, figlia di Antonietta Raphaël e del pittore Mario Mafai, è una nota costumista del cinema e del teatro. Con Skira ha pubblicato “Storia del Costume dall’età romana al Settecento” (2011) e “La ragazza con il violino” (2012).
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