Gli accumulatori
Conosciamo tutti, e in genere apprezziamo, le accumulazioni operate da alcuni grandi artisti del XX secolo, da Kurt Schwitters a Andy Warhol. Ma cosa succede quando sono case private a riempirsi all’inverosimile di ciò che abitualmente consideriamo spazzatura? È una diga contro il crollo di sé o l’apice del consumismo?
Mi capita spesso, ultimamente, di riflettere sul senso di ciò che fanno gli “accumulatori”. Queste figure esercitano un fascino indubbio sugli spettatori di tutto l’Occidente (basta citare i titoli di alcuni reality e documentari televisivi a loro dedicati: Hoarders su A&E, Extreme Clutter with Peter Walsh su OWN-Oprah Winfrey Network, Hoarding: Buried Alive su TLC). Perché? Cosa significa esattamente ammassare con cura e amorevolezza per decenni in casa propria robaccia, oggetti inutili (che da altri cervelli, da altre identità verrebbero catalogati come immondizia, per essere immediatamente gettati via), conferendo in molti casi a queste operazioni un carattere addirittura monumentale?
Una prima spiegazione, piuttosto facile, consiste nel vedere le accumulazioni casalinghe come versioni estreme del consumismo. Tutti conosciamo il sollievo che proviene dall’acquistare beni che non ci servono (soprattutto quando per qualche motivo non ci sentiamo bene, “non siamo a posto”) e portarceli a casa. Questo sollievo, sottoposto a un’accelerazione e a un sovraccarico quasi incredibili, dà luogo a masse di cianfrusaglie che invadono gli spazi dell’esistenza quotidiana… sostituendosi progressivamente a essa.
Ed è qui, in fondo, che risiede forse la chiave per cominciare a capire l’intera faccenda. All’origine di un’accumulazione c’è sempre un trauma o una sequenza di traumi. Per reagire a una perdita, a una ferita psichica che non si rimargina, questi individui iniziano un’opera che lentamente li seppellisce vivi nei loro stessi ambienti privati. L’aspetto più agghiacciante, però, è che questo stesso processo di accumulazione impedisce di fatto una vita di relazione, ed è l’origine di altre perdite. Gli accumulatori si sganciano dai propri affetti, rinunciano a essi, sottoponendosi a ulteriori gravi traumi pur di non separarsi dai rifiuti che stanno ammassando.
Ciò ne fa personaggi tragici: questa tensione continua tra una forma molto acuta di dipendenza, di compulsione, e la separazione progressiva dalla realtà della vita comune è qualcosa di interessante, da interrogare. Come dice E. L. Doctorow a proposito dei fratelli Collyer (leggendari accumulatori newyorchesi in azione tra gli Anni Dieci e gli Anni Quaranta, alla cui vicenda interiore il grande scrittore postmoderno ha dedicato il suo ultimo romanzo, Homer & Langley del 2009): “È come se quella casa fosse un altro paese”.
E di che paese, di che spazio, di che territorio si tratta? Ognuno di questi accumuli – più o meno affascinanti e/o disgustosi – costituisce una commovente barriera eretta con pazienza sovrumana contro la morte e la scomparsa, propria e degli altri. È una sacca imbarazzante, socialmente inaccettabile, di resistenza alla condizione umana nella contemporaneità. Per questo quasi tutti siamo come ipnotizzati dalla visione di queste stanze e di questi corridoi resi impraticabili da ostacoli creati ad hoc – che naturalmente, da un altro punto di vista, sono invece sostegni – con oggetti di uso comune, assemblati e disposti in stratigrafie (le quali indicano, in molti casi, epoche diverse all’interno della stessa casa).
Gli accumulatori creano – sacrificando la propria vita quotidiana – un territorio privato nel senso più estremo ed esclusivo del termine (esclude infatti tutti coloro che non sono capaci di condividerlo e apprezzarlo), sottraendolo al flusso del tempo e alla sua azione. Ogni accumulazione crea, in definitiva, una “sospensione del tempo”: una capsula temporale malata, distorta, ossessiva, che però proprio attraverso la distorsione e l’ossessione riesce a ottenere ciò che è stato espulso con cura dalle nostre società. (D’altra parte, su cosa lavoravano se non sul tempo e sul suo congelamento tutte le grandi accumulazioni artistiche del XX secolo, dal Merzbau di Kurt Schwitters alle Time Capsules di Andy Warhol?)
Ciò che è stato espulso è precisamente il rapporto con la morte, la relazione fra tempo storico ed eternità. I territori creati dall’azione degli accumulatori sono dunque separati dalla realtà condivisa, sono “altri paesi” sottoposti a norme completamente diverse da quelle che regolano l’esistenza comune, caos privati e controllati che risultano invivibili alla maggioranza. Ma se questi spazi, queste micro-nazioni separate, nascoste e autodistruttive fossero traduzioni molto più fedeli dei nostri ordini collettivi, precipitati più radicali – e dunque, paradossalmente, più ortodossi – dei sistemi che ci vengono consegnati alla nascita?
Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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