Il design non solubile
Oggi si parla molto della necessità di un design “umanistico”, un fare progettuale diffuso che parli di e per l'uomo anziché di e per la tecnica. Non della sua “essenza”, ma della sua singolarità antropologica. In realtà, questa vocazione a occuparsi dello specifico dell'umano è insita nel dna stesso del design. Fin dalle sue origini.
Le origini del design sono poste sul crinale tra i due grandi filoni del sapere occidentale, quello tecnico-scientifico e quello artistico-umanistico. Ma la separazione tra questi due alvei è recente, risale appena alla rivoluzione scientifica del XVII secolo, epoca in cui gli oggetti divennero “solamente” degli oggetti. Fino ad allora, infatti, le sedie, i tavoli e gli altri “personaggi di servizio” con cui gli uomini avevano condiviso la loro esistenza erano sempre stati vissuti come i precipitati materiali di quegli umori oscuri, sentori persistenti e spiritualità non allineate che, rimosse dalle religioni storiche, continuavano ad albergare nell’animo umano, e nell’interno delle loro case. Poi, nel Seicento, la scienza moderna messa a punto dalle menti nuove di Galileo, Cartesio, Bacone e altri fece la tara fra ciò che di lì in poi sarebbe stato considerato “scienza” e ciò che, come la magia, sarebbe stato escluso dalle stanze della verità. Il sapere scientifico e quello umanistico presero vie separate, scindendo il grande fiume che saliva lento dal mondo antico e che, dopo aver risalito i percorsi carsici del Medio Evo, era giunto intatto alle ultime grandi figure di scienziati-artisti come Leonardo e Brunelleschi.
Quello che oggi chiamiamo “disegno industriale” comparve poco dopo, intorno alla metà dell’Ottocento, come tentativo di restituire un volto umano a oggetti generati da un’industria immemore del fondo poetico dell’esistenza ma anche (il design ha sempre avuto un lato oscuro) come sforzo per recuperare la gravità oggettuale dei nuovi cittadini moderni vezzeggiati da quella grande invenzione filosofico-civile che fu la concezione di una libertà intesa come (si noti l’ossimoro, tenuto insieme dalla potenza dell’idea) “diritto naturale”.
Ecco perché ancora oggi il designer si comporta da artista tra gli ingegneri e da ingegnere tra gli artisti: perché il suo compito è quello di immettere un’inquietudine vitalizzante laddove tutto sembrerebbe risolto nella razionalità tecnica, ovvero far emergere il cuore razionale anche dalle sperimentazioni formali più azzardate, mettendo “in vibrazione” l’intero sistema degli oggetti, strettamente connesso al significato umano del non-umano e alla corporeità non-umana dell’umano. È il caso, per fare un esempio specifico, della mensola a forma di croce latina di Ilaria Zanotti, un progetto che, seguendo la logica estrema della forma archetipica, individua l’esatto punto d’incontro fra l’oggetto d’uso e il segno religioso, restituendo quest’ultimo alla più profonda sacralità “laica” della vita quotidiana.
Questo posizionamento ambiguo del design, il cui compito è, come suggerisce Andrea Branzi, “sperimentare le possibilità artistiche della tecnologia e le qualità tecnologiche dell’arte”, si rivela tanto più strategico per capire il mondo contemporaneo, perché l’intera realtà è oggi oggettuale, mercificata, semiotizzata. Per questo lo stesso Branzi propone (come teorico e come designer, ad esempio con le Nature morte) una “nuova drammaturgia del progetto” attraverso cui trattare, con gli strumenti filosofico-operativi del design, quei temi che sono sempre rimasti esclusi dalla cultura del progetto. Temi come la provenienza, il destino, la morte, la malattia, il sacro, il nodo vegetale tra crescita e deperimento… Temi “non solubili”, che resistono alla liquidità dei mercati e all’impazzimento dei segni contemporanei, smaniosi di immettersi nel generale flusso di liquefazione cross-mediale in cui consiste la loro partecipazione al sociale.
È in contrapposizione a questo scenario che si pone una lapide senza nome come quella proposta da Federico Pazienza con Mysterium Tremendum, inappellabile esibizione del ritorno all’indistinto a cui conduce la morte. Mentre l’urna funeraria progettata da chi scrive (ci perdonerete, per una volta, l’autoreferenzialità) si compone di due cubi in vetro nero identici, uno dei quali contiene le ceneri dell’estinto mentre l’altro resta vuoto, in maniera tale che, dopo aver sigillato il cubo contenitore, non sia più possibile sapere in quale dei due si trovino le ceneri. La morte non può essere “individuata”.
Stefano Caggiano
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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