Jerusalem Contemporary
La città divisa per eccellenza. A metà tra Israele e Palestina, ma anche fra tradizione e modernità. Un luogo unico al mondo, plasmato e modificato da lotte continue tra civiltà, culture e usanze. È qui che tre fra le più diffuse religioni monoteiste - ebraismo, cristianesimo e islam - cercano di convivere. Un luogo simbolo e una terra di mezzo tra Occidente e Medio Oriente, che sta cercando di immaginare il proprio futuro.
Rispetto alla disinvolta Tel Aviv – dove la corsa al rinnovamento accelera ogni anno, come si può leggere nelle due pagine che seguono immediatamente quelle che state leggendo – Gerusalemme ha avviato un lento percorso di rilancio. Complice la continua instabilità, pezzo per pezzo e senza una visione generale d’insieme, la Città Santa sperimenta l’architettura contemporanea.
Un primo importante esempio è stato, nel 2008, il Light Rail Bridge realizzato su progetto dell’architetto più celebre in materia, il valenciano Santiago Calatrava. 66 cavi d’acciaio ancorati a un unico pilone inclinato, alto 118 metri. Molto più che un ponte, la struttura – sospesa non su un fiume ma su una strada a grande scorrimento – aspira a diventare un nuovo ingresso, un simbolo di ricucitura ai margini della città nuova, quella multietnica e variegata dove le diverse comunità nazionali hanno ricostruito i simboli architettonici dei propri Paesi. È qui che, in un eclettismo sfrenato, troviamo le copie di piazza della Signoria di Firenze, di chiese ortodosse e dei mulini a vento.
A differenza dell’intoccabile città vecchia, dichiarata Patrimonio Unesco nel 1981, la città nuova è la tela bianca, la terra di tutti dove convivono etnie, linguaggi e stili in un complesso spesso spontaneo e senza regole. È sempre qui, in particolare nel quartiere Givat Ram, la collina nella parte ovest della città dove sono localizzate le istituzioni più importanti come il Knesset, il Parlamento israeliano, che nel 2010, dopo tre anni di lavori, ha riaperto al pubblico una delle istituzioni culturali più importanti del Paese. L’Israel Museum è infatti il più grande campus culturale d’arte israeliana: qui sono esposti i celebri Rotoli del Mar Morto, giusto per fare un esempio. Sono serviti 100 milioni di dollari per riorganizzare e ampliare di oltre 95mila mq la struttura razionalista originaria del 1965 a opera dell’architetto naturalizzato israeliano Alfred Mansfeld e Dora Gad. Le nuove gallerie, progettate dallo studio newyorchese James Carpenter Associates, aggiornano e rivedono lo stile modernista preesistente, ponendosi in continuità senza gesti di rottura.
Sempre nella stessa area, deputata alla cultura e alle istituzioni israeliane, dovrebbe sorgere la nuova sede della Biblioteca Nazionale, su progetto dell’architetto israeliano con base a New York Rafi Segal [nella foto]. Dovrebbe, perché è notizia del 17 dicembre che il Consiglio di Amministrazione della National Library Construction Company ha annunciato, sul sito del concorso, la fine dei negoziati con l’architetto a causa del troppo tempo che quest’ultimo ha fatto passare dalla sua nomina a vincitore. Ciò inficerebbe in modo irrevocabile la scelta di realizzare la nuova biblioteca secondo il disegno di Segal.
Il concorso – voluto dal Comune di Gerusalemme e dall’Associazione Israeliana degli Architetti – è arrivato alla sua conclusione dopo un percorso lungo e tortuoso, tuttora al centro di controversie. A gennaio 2012 viene lanciato il bando aperto ai soli progettisti israeliani. Degli 81 partecipanti, in forma anonima, ne vengono selezionati 4 a cui si aggiungono, nella seconda fase, 8 studi internazionali invitati dalla commissione. Tra questi, nomi altisonanti come David Chipperfield, Shigeru Ban e Moshe Safdie. Una decisione che non piace agli architetti locali, i quali denunciano l’irregolarità. Ma tra le 12 proposte ne vengono selezionate tre e quella di Rafi Segal convince la giuria – composta, tra gli altri, da Luis Fernández Galiano e Rafael Moneo – per il rispetto nel dialogo con le architetture circostanti e per la sobrietà compositiva.
Ad oggi non si conoscono le sorti del progetto: sembra improbabile che la proposta di Segal venga ripresa in considerazione e si aspetta che una nuova commissione decida come riattivare il processo di selezione di un altro progetto. Forse né la città né la comunità gerosolimitana è ancora pronta per un vero e concreto rinnovamento. Ma l’impegno ce lo sta mettendo tutto.
Zaira Magliozzi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
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