La condizione dell’architettura cinese
I numeri dello sviluppo urbanistico asiatico rispetto a quello europeo sono incredibili: cinque volte più veloce, in vent’anni è successo quello che in Europa si è fatto in cento anni; otto volte maggiore, 23 città che superano i cinque milioni di persone in Cina mentre solo tre città in tutta Europa, e tutto ciò interessa una popolazione due volte maggiore, 731 milioni in Europa e 1.342 in Cina.
Attualmente, la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale portandosi al 51%. Si calcola che questa arriverà a 83% nel 2035, quando il processo si stabilizzerà.
La popolazione urbana richiede servizi e infrastrutture determinando un approccio progettuale basato sui grandi numeri.
In Cina il volto delle città è caratterizzato dalla demolizione. “Solo il 10% degli edifici storici in Cina è sopravvissuto fino a noi”, scrive Wang Shu. Con la demolizione della città storica, la società asiatica si deve confrontare continuamente con il concetto della tabula rasa.
Il numero degli architetti è estremamente significativo. La proporzione tra abitanti e architetti è di 40mila a uno, incredibile se pensiamo che in l’Italia c’è un architetto ogni 400 persone: un numero cento volte maggiore. Gli architetti cinesi devono quindi essere molto più efficienti dei loro colleghi occidentali per poter lavorare. Il volume dell’uso del cemento armato in Cina è il 33% del volume mondiale, gli architetti cinesi sono un centesimo del totale mondiale. Il fatturato invece si attiene a un decimo della media globale. In altre parole, un centesimo degli architetti deve progettare il 33% delle costruzioni e lo deve fare per un decimo del profitto. Questa situazione crea la condizione teorica dell’architettura cinese.
Oggigiorno la condizione degli architetti cinesi impone la riduzione sia del tempo di costruzione sia di progettazione. Da senza limiti di possibilità, il progetto diventa meccanico come una produzione industriale e non rimane tempo per riflettere. La velocità di esecuzione e la volontà di caratterizzare il luogo generano esempi come le One City Nine Towns a Shanghai, città satelliti in stile europeo. La Cina vuole sperimentare la vita all’occidentale, e poco male se si tratta di una copia di un’Europa lontana. Il fatto di importare stilemi occidentali e reimpastarli per sfornare edifici crea un’architettura ibrida.
L’architettura in Cina è business. Il real estate è costruito, sfruttato, e quando questo ha dato tutto ciò che può dare, viene demolito per far posto a un nuovo investimento. I “To-fu Building” sono edifici in cui materiali e tecnologie sono sacrificate per abbassare costi di produzione e velocizzare i tempi di esecuzione. Da questa trappola non scappano nemmeno le archistar come Zaha Hadid, che sperimenta nell’Opera House di Guangzhou le conseguenze di una tale filosofia costruttiva.
La Cina vuole rispetto e visibilità, la tendenza del Governo è verso architetture riconoscibili, imponenti e iconiche, che ricercano un riconoscimento a livello mondiale. Le archistar sono quindi entrate sulla scena architettonica cinese sostenute e volute dal Governo stesso. La Cina si tramuta così nel nuovo palcoscenico architettonico mondiale. Come lo era Manhattan a New York quasi un secolo fa. La città resta la vetrina della modernizzazione del Paese, come volle Deng Xiaoping per Pudong a Shanghai, la “Manhattan Cinese”.
I “nostalgici” ricercano la “cinesità” in architettura attraverso l’idea di ricostruire intere porzioni di città in stile tradizionale. Gli “iconici tradizionali” usano la via dell’ingrandimento in scala di immagini della tradizione culturale, usano simboli della tradizione come lanterne, ventagli, draghi, monete per infondere nei propri edifici l’icona della “cinesità”.
Oggi gli “studenti di ritorno” possono essere interpretati come l’ultimo tentativo di importare nuove idee e conoscenze dall’Occidente. Questo categoria è rappresentata da architetti che hanno studiato nelle principali università straniere, aperti a sperimentazioni contaminate da nozioni occidentali. Rifiutano la situazione architettonica attuale, scegliendo un linguaggio basato sul purismo della tettonica, su forme radicali, materiali vernacolari e tecnologie costruttive semplificate.
Se mettiamo a confronto l’architettura occidentale e quella cinese, ci accorgiamo del divario temporale esistente. Analizzando i modi attuali del fare architettura della nuova generazione di architetti, si notano molte caratteristiche in comune con il periodo architettonico del dopoguerra in Europa e in Occidente. Dal New Empirism in Svezia al Neoespressionismo tedesco, dal Neorealismo italiano fino al Novo Brutalismo brasiliano. Dopo cinquant’anni, i temi del “dopo Movimento Moderno” europeo vengono ridiscussi oggi in Cina.
Peter Eisenman, nel saggio Critical Architecture in a Geopolitical World, solleva la problematica della mancanza teorica nell’architettura cinese, causata dall’influenza dei fattori economici. Negli scritti di Yung Ho Chang, architetto teorico cinese, emerge il messaggio della necessità di un’architettura di critica che vada contro la situazione consumistica attuale attraverso l’autonomia dell’architettura, forme radicali e uso dell’architettura vernacolare. Rem Koolhaas parla della necessità di essere attenti a questi fenomeni emergenti, di studiarli da un punto di vista teorico: un atteggiamento necessario per rinnovare la professione dell’architetto e mantenere uno spirito critico.
Lo stravolgimento culturale delle ultime generazioni ha portato a un’architettura ibrida, in cui il profitto orienta il progetto. I grandi numeri del teorema architettonico cinese, le Olimpiadi e l’Expo, il boom economico, creano possibilità e bisogno di costruire. Ma la Cina è ancora lì, da quando ha aperto le porte all’Occidente, a cercare di capire quale sia la sua architettura.
Pier Alessio Rizzardi
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