La fotografa con la passione per la neurologia
Classe 1985, Esther Mathis si è diplomata in Fotografia nel 2008 allo IED di Milano. Ora sta frequentando un master in Fine Arts alla Zürcher Hochschule der Künste di Zurigo. È lei l’autrice del portfolio pubblicato su Atribune Magazine numero 12, in distribuzione fra pochi giorni. Qui trovate l’intervista con Angela Madesani.
I primi lavori, da un punto di vista cronologico, che trovano spazio sul tuo sito sono quelli realizzati in occasione della tesi di diploma, conseguito nel 2008 allo IED. Sono il video Schnee e il ciclo fotografico Weiss. Iniziamo a parlare di questi.
Già a partire da quei lavori, i fenomeni naturali e quindi il tempo, sia in senso meteorologico che fotografico, erano già un mio interesse portante. Cerco di archiviare momenti. A mio parere è il senso stesso della fotografia. Sono affascinata dalle cose eteree, leggere.
Hai una particolare attenzione nei confronti della natura e dei suoi fenomeni?
In realtà ho anche o forse soprattutto in questo particolare momento un grande interesse nei confronti della scienza, della neurologia, della biologia, di quanto riesce a fornire una spiegazione dei fenomeni naturali. Certo, le mie immagini hanno una forte valenza estetica, ma ultimamente cerco soprattutto di trovare un senso a quello che faccio.
È il tuo modo di avere un impegno sociale?
Mi piacerebbe poterlo affermare. In realtà non è una questione sociale. La politica non mi interessa più di tanto. La sento come qualcosa di passeggero, che si pone in netto contrasto con l’eternità del mare, delle montagne. Forse è sin troppo facile, ma è quanto provo…
Torniamo a Weiss…
Sono persone che escono dalla nebbia. Quello che mi dispiace, riguardandolo oggi, è che si tratta chiaramente di una situazione forzata, creata con l’aiuto della tecnologia, di Photoshop intendo. Oggi non lo rifarei così, cercherei una situazione reale. Ma trovo che, nonostante questo, possa ancora funzionare.
Adesso non usi più Photoshop?
Ora lo utilizzo solo per sistemare i dettagli, non per creare cose che non ci sono.
Parliamo di Untitled del 2009.
È una ricerca sugli uccelli migratori, sulle forme alle quali danno vita durante il volo. Mi interessava anche la ripetizione. Il lavoro è costituito da tre stampe, una chiara, una media e una scura. L’unica che rispecchia la realtà è quella scura. Per le altre due, con la penna grafica ho realizzato migliaia di segni e poi ho sovrapposto le immagini. Si tratta di un’opera tecnicamente più complessa, che prevede l’utilizzo di tecniche una diversa dall’altra.
Mi pare che questo con le migrazioni sia il tuo ultimo lavoro in quella direzione. Dopo le tue ricerche hanno preso un’altra direzione…
Infatti. Moment (2009-10) è costituito da immagini di piccole dimensioni che raccontano dei momenti. Ci sono persone, paesaggi, animali. Anche qui c’è la narrazione di un cielo con molti uccelli, ma questa volta è vero, senza nessun intervento. L’insieme racconta una storia di assenze. È come perdersi all’interno di qualcosa. Il tentativo è quello di cogliere e di raccontare un attimo, un frangente. Nel video Mirror (2012), invece, ho indagato la luce con tutte le sue sfumature di colore.
Wasser, del 2010, è un lavoro sul liquido?
Alcune immagini sono state scattate addirittura sott’acqua con una macchinetta usa e getta. In un’altra foto, una donna è immersa in un liquido: è latte. Una foto è stampata su carta velina, così che la luce riesce a filtrare totalmente. La luce passa, non c’è nessuno sfondo. L’acqua mi affascina, mi seduce. In acqua tutto è in equilibrio, non ci sono rumori altri.
La natura gioca la parte del leone in molti dei tuoi lavori. Know you’ll never see me without a light with the lights out del 2012 è costituito da due schermi, dei quali uno sottoesposto.
Si tratta semplicemente di diversi punti di vista. È una montagna con le nubi. Uno è come un dettaglio dell’altro.
Falling rocks in weightless balance with me del 2012 è un mobile come quelli di Calder?
Un’installazione sul tema dell’adrenalina. Ho intervistato quattro arrampicatori che hanno avuto la sventura di precipitare in montagna e la fortuna di poterlo raccontare. Tutti mi hanno raccontato l’esperienza del volo nel vuoto, come in slow motion: non avevano paura, sentivano tutto quello che accadeva a 360 gradi intorno a loro. Mi hanno parlato dell’adrenalin rush. Si sentivano perfettamente bilanciati, senza ansia e paura, è come se avessero avuto un innato senso della caduta. Alla fine sono svenuti: il cervello aveva lavorato troppo. È una faccenda complessa.
Fra i tuoi lavori più recenti, Höhe über Meer è un’installazione costituita da cinque parti.
Höhe über Meer in italiano è l’altitudine. È un lavoro sulle radici delle piante e sulle sinapsi. È costituito da cinque boccette farmaceutiche, piccole, fragili, all’interno delle quali c’è un sassolino nel quale, come nella bottiglietta, è stato praticato un foro. In ogni contenitore è stata quindi inserita la radice di una pianticella raccolta a diversa altitudini. La prima al livello del mare, la seconda in collina e così via sino ad arrivare ai 4.000 metri del Cervino. Man mano che si alza il livello sul mare, la radice si semplifica sino ad arrivare all’ultima, quasi priva di ramificazioni. Più in alto si è, meno ossigeno c’è e minore è lo sviluppo, cambia il terreno, il rapporto con l’acqua. È una comparazione tra il meccanismo della natura e quello del cervello umano. Per realizzare questo lavoro mi sono confrontata più volte con un neurologo. Mi interessava capire come vengono archiviate le informazioni dal cervello umano.
Vergissmeinnicht, “Non ti scordar di me”, è un lavoro fotografico (2011), un video (2012), un’installazione (2011)…
Si tratta, come ho già detto, di un tentativo di archiviare momenti. Con l’installazione, che avevo mostrato anche alla Galleria Artra di Milano, ho tentato di archiviare l’arcobaleno. Il titolo è, infatti, la formula dell’arcobaleno: sin90°=1.333 x sin42°. Ci sono poi due dittici fotografici, acquisiti dal Kunstmuseum di Winterthur. Di uno il titolo è la formula fisica delle nuvole: Q=-2.26 x 106 x m. Accanto ad esso è l’immagine di una provetta con dentro un capello, ciò che rimane di una persona, in una chiave di malinconia, di solitudine. L’altro dittico è sulla luminosità delle stelle, intitolato con la formula fisica: L = 4πR2oT4eff: nella provetta c’è un sassolino. Il lavoro video, con il sottotitolo Noctuidae, è la ripresa notturna di un volo di falene. Un ballo straordinario. Il mio intervento è stato praticamente nullo, mi sono limitata a illuminare e a registrare.
Mi pare di poter scorgere in questi lavori la poesia universale della natura. Si ritorna alla cultura tedesca, al Romanticismo, allo Sturm und Drang. Ti senti limitata da questa mia affermazione?
No, solo mi imbarazza un po’, mi pare quasi troppo. In realtà, ho scelto proprio questi tre fenomeni – arcobaleno, nebbia e cielo – perché sono stati spesso soggetti pittorici, soprattutto nella pittura romantica tedesca. Si pensi a Caspar David Friedrich. Nei dittici ho cercato di archiviare il sentimento, perché la formula non può bastare. Per questo c’è il capello: è la malinconia, la lontananza.
Mi pare che anche l’essere umano abbia un ruolo portante nel tuo lavoro.
Già in Schnee e in Weiss le persone erano le protagoniste del mio lavoro.
Il lavoro fotografico Portraits (2010) è costituito da una serie di ritratti di persone che conoscevo e che avevano in quel particolare momento circa la mia età, intorno ai 25 anni. Erano tutte persone alla ricerca di una strada esistenziale e non. Immagini sovraesposte, stampate su carta velina, un materiale che invecchia velocemente. Quando ci si avvicina ad esse per mettere a fuoco l’immagine, spostando l’aria i fogli si muovono e non si riesce a cogliere l’immagine nel suo nitore formale. Bubble (2011) è un lavoro diretto, immediato. Una persona ha la testa in una bolla di sapone che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. È una sorta di foto in movimento.
Vogliamo parlare della tua, per ora, unica collaborazione con il mondo della moda?
Burnout (2011) è un video che racconta di un particolare materiale, un filato d’acciaio. È stata un’esperienza interessante, una collaborazione con lo stilista italo-belga Nicholas Julitta. Mi è piaciuto lavorare per la moda, è più immediato.
E adesso a cosa stai lavorando?
Pressappoco in concomitanza con il mio trasferimento a Zurigo ho aperto il mio archivio. Negli ultimi due anni ho fatto tante foto che non ho mai usato. Sono abituata a partire da un concetto, a studiarlo, a intervistare delle persone e infine scatto, e vorrei continuare in tal senso. Con questo lavoro, invece, sto operando al contrario: sto raccogliendo le tante foto che ho fatto e che mi sono semplicemente venute in mente, senza partire da un concetto, da una ricerca. Erano tutti materiali non stampati. Ora li ho stampati, li ho attaccati sul muro del mio studio e giorno dopo giorno vedo che si sta formando un mondo.
Ma quindi non c’è un tema che le unisce?
In realtà c’è. Si tratta di una serie di relazioni, basate su modelli sociali. Ho preso parecchie foto da Internet sulla famiglia, su come viene generalmente proposta: padre, madre, due figli, possibilmente maschio e femmina. Sono tutti sorridenti. Parallelamente sto ritraendo persone che cercano di vivere liberamente la propria vita, soprattutto da un punto di vista relazionale.
È dunque una mappatura? È nella cultura tedesca il tentativo di classificazione. Penso a August Sander, a Karl Blossfeld…
Classificare è un modo di comprendere il mio ambiente circostante. Qui è una sorta di mappatura sul concetto di felicità. Non credo che le persone ritratte sappiano cosa le rende felici. Sono tutti alla ricerca di qualcosa e io stessa non ho ancora trovato una vera e propria chiave di questo lavoro. Sono fotografie molto piccole. Persone che stanno nella nebbia, che si perdono e si ritrovano. In fondo la perfezione non è che una finzione, non trovi?
Infatti. Per concludere, una curiosità, che forse non sono l’unica ad avere. Perché una svizzera “tedesca” è venuta proprio in Italia a studiare fotografia?
È una lunga storia. Quando ho finito il liceo a Zurigo sono andata a lavorare come cameriera in Portogallo e a Londra. Volevo studiare fotografia. Parlavo tedesco, inglese e italiano. Non volevo però tornare subito nel mondo tedesco. Ho deciso così di venire in Italia, dove mi sono trovata molto bene. Lo IED mi ha dato molto.
Ho vissuto in Italia, a Milano, per sette anni, sino all’anno scorso, quando ho deciso di tornare in Svizzera. Sei mesi fa ho iniziato con questo master a Zurigo, dove c’è un clima interessante, si fanno molte cose. Nella mia piccola città, Winterthur – ha 80mila abitanti -, ci sono sette musei che fanno acquisizioni anche di giovani artisti come me e tutto questo non mi pare poco.
Angela Madesani
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