La ricerca scientifica degli altri
Ho viaggiato molto negli ultimi dieci anni, non per diletto. Ho tre figli che studiano e/o lavorano all’estero. I tempi sono questi, il lavoro si va a fare dove c’è, e non è poi così male . Viaggiando ho capito il valore del patrimonio artistico del nostro Paese…
Viaggiando ho visto come in Asia o negli Usa la transizione dall’era industriale (materie prime e lavoro) all’era della conoscenza (tecnologia e scienze) sia inarrestabile. Già oggi il 30% del Pil mondiale viene prodotto da industrie KTI (Knowlege and Technology Intensive). Eppure – e non era mai successo negli ultimi cinquecento anni – da dieci anni l’Europa investe in ricerca scientifica meno soldi e meno speranza di quanto accade altrove, Africa esclusa. I numeri sono inquietanti. Nel 2010 solo l’1,6% del Pil in Europa, mentre la media mondiale è 2%. L’Unione Europea spende il 25% in meno della media Ocse, il 33% in meno degli Stati Uniti, il 50% in meno del Giappone. Non è l’effetto della crisi ma una delle sue cause.
La ricerca scientifica negli ultimi cinquecento anni è stata la leva su cui l’Europa ha costruito la propria egemonia culturale ed economica. Il resto del mondo l’ha capito e ha provveduto, mentre una parte rilevante dell’Europa la sta abbandonando. Per inerzia, per pessimismo, per colpevole disinteresse. Ma davvero allo shopping di aziende italiane in atto da parte di magnati cinesi o emiri del Qatar si può rispondere con il riduzionismo? Quel che ci dicono i numeri è diverso: qualcuno declina e qualcun altro avanza. Perché la cattiva finanza è una parte del problema, ma non è tutto il problema.
Se i popoli europei non superano insieme la mollezza che li caratterizza, il declino diverrà irreversibile, e differenziale. Ancora numeri. La Germania spende ogni anno il 2,48% del Pil in R&S, l’Italia il’1,26. La Germania ogni anno registra 247 brevetti ogni milione di abitanti, l’Italia 16. L’economia tedesca nel 2010 è cresciuta del 4,9%, l’Italia dell’1%, dello 0,2% nel 2012 e -2,5% è il tasso previsto per il prossimo anno. In Italia siamo molto più bravi a fare stoffe che automobili. E dobbiamo continuare a farle, ci mancherebbe. Ma non basta. L’Italia investe ogni anno il 39% in meno della Germania in formazione terziaria. Non può essere un caso.
Aldo Premoli
trend forecaster
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #11
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati