“Mi hanno appena tolto un dente”. Arte e non-arte secondo Bugo
Dalla musica all’arte. Da Milano a New Dehli. Tra elaborazione artistica e stralci di vita quotidiana. Abbiamo incontrato Bugo, al secolo Cristian Bugatti, per farci raccontare presente e passato della sua eclettica carriera creativa.
La grande lezione di Allan Kaprow fu situare il fatto artistico in uno spazio simbolico e materiale di confluenza tra le arti visive e le discipline dello spettacolo; in cui i materiali plastici e gli oggetti della realtà quotidiana diventano vivi attraverso una ricontestualizzazione semantica ed espressiva, travalicando quei limiti entro i quali erano stati tradizionalmente confinate le arti cosiddette “dello spazio” e “del tempo”. E, in ultima istanza, superando quegli stessi limiti dentro i quali era stata confinata la cosiddetta “arte”, per conferire una dignità inedita al concetto di “non arte”.
Nella Parte I di The Education of the Un-artist (1971), Kaprow scriveva: “Non-arte è ciò che ancora non è stato accettato come arte ma ha già catturato l’attenzione di un artista con questa possibilità in mente. A chi interessa, la non-arte (primo segno riconoscibile) esiste solo in modo fugace, come una particella subatomica, o forse solo come postulato. Infatti, nel momento in cui questo esempio diventa pubblico, si trasforma automaticamente in un tipo d’arte. Diciamo, per esempio, che rimango impressionato dai nastri meccanici per i vestiti che si utilizzano nelle lavanderie a secco. Mentre questi svolgono la loro normale attività e mi stirano l’abito in venti secondi, ¡flash!, all’improvviso si trasformano in Ambienti Cinetici, per il semplice fatto di averci pensato e di averlo scritto qui. […] Fare arte è molto facile al giorno d’oggi”.
Il lavoro artistico di Bugo (Cristian Bugatti, Rho, 1973; vive a New Dehli) nasce proprio da questa oscillazione tra l’arte e la “non-arte”, nel senso esplicitato da Kaprow di movimento pendolare tra l’opera in potenza, ancora inserita in un contesto quotidiano (tradizionalmente extra-artistico) e il suo affiorare alla superficie in quanto casus pubblico di rilevanza esemplare.
Negli ultimi quindici anni Bugo ha sviluppato un’importante carriera come musicista. A partire dalla metà degli Anni Zero si dedica anche alla creazione plastica e visuale, cui è giunto per una strada silenziosa e personale, al di fuori dei circuiti mediatici e dei percorsi convenzionali della formazione artistica. Il fatto di provenire da un ambito estraneo al tradizionale sistema dell’arte contemporaneo – che molti considerano ancora un’eterodossia – carica il suo lavoro di un’autoconsapevolezza e un senso di responsabilità particolari: che le sue opere non vengano percepite come meri esercizi estetizzanti.
Poco tempo fa mi dicevi che quando eri adolescente l’arte ti sembrava qualcosa di distante, roba da intellettuali. Come studente andavi male nelle materie artistiche e preferivi la poesia e la musica rock. Come la maggior parte degli adolescenti di allora, volevi essere punk. Poi negli Anni Novanta hai cominciato una brillante carriera come musicista, che dura da oltre quindici anni. A metà degli Anni Zero, parallelamente al tuo lavoro di musicista, hai cominciato a dedicarti seriamente, in modo quasi spontaneo e non premeditato, anche all’arte visiva. Come è cambiata la tua concezione dell’arte?
Quando ero adolescente avevo una visione molto ristretta del mondo dell’arte, non ero affatto immerso nella realtà. Non sapevo dipingere e in casa mia non si è mai parlato di arte. Siccome non sapevo che esistessero Duchamp, Manzoni, le performance e l’arte concettuale, per me l’arte visiva era o pittura o scultura.
Diciamo che sono arrivato all’arte visiva attraverso passaggi lenti e graduali. Il mio interesse per la poesia e successivamente la musica mi hanno portato a sviluppare una visione più ampia, che da qualche anno comprende anche l’arte visiva. Dalla parola alla musica, al visivo. Sono passaggi che sono venuti molto naturalmente. Non ho mai frequentato scuole o accademie, e quindi negli anni ho sviluppato un’idea di arte forse un po’ confusa, tanto che ancora adesso non saprei dirti quale sia la mia concezione di arte. Forse l’arte è un modo di creare una tensione, un dialogo. Uso l’arte per dialogare con il mondo.
Una frase che mi hai detto e che mi ha molto colpito è stata: “L’arte è un altro modo per tenere in pugno il mio tempo”. Questo significa che la musica è diventata per te un ambito creativo che comincia a starti stretto? Si potrebbe dire che il tuo avvicinamento all’arte derivi da un desiderio di maggiore libertà espressiva rispetto alla musica?
Sono musicista da quindici anni e devo dirti che nell’ambiente musicale italiano ho sempre trovato qualcosa che stonava. Ho vissuto qualche anno come musicista indipendente, poi dieci anni fa ho firmato con una multinazionale, ma mi sono sempre sentito fuori posto. L’arte mi ha dato la possibilità di aprirmi a nuove visuali, e ora che vivo all’estero da due anni posso anche sentirmi un po’ parte di un discorso più globale. Certo, è da poco che mi occupo di visuale, sto lavorando molto per migliorarmi. Che sia musica o arte, tutto per me ha a che fare con il tempo, con il mio tempo libero. Se vuoi, è qualcosa che è anche legato al mio destino. Avere tanto tempo a disposizione può tirar fuori il peggio o il meglio di noi, ma perlomeno l’arte mi da la possibilità di alzarmi la mattina e decidere come occupare al meglio le mie giornate.
Credi che il fatto di essere già famoso come musicista sia per la tua carriera di artista un vantaggio o uno svantaggio?
Ho incontrato più difficoltà che vantaggi. In Italia se sei musicista e vuoi fare l’artista vieni subito additato come quello che vuole strafare, che fa due cose e rischia di farle male. Sono passaggi, e ora sta a me dimostrare quanto io sia serio in quello che faccio. Forse ci vuole del tempo per comprendere appieno quello che sto facendo.
Secondo me, nel tuo lavoro di musicista è sempre stata presente implicitamente una vena creativa visuale. Mi riferisco alla parte grafica dei tuoi album, alle copertine e al lavoro con i videoclip. Mi sembra come se a un certo punto tu avessi preso coscienza di questo potenziale che era già presente nel tuo lavoro e avessi deciso di svilupparlo consapevolmente e con un percorso autonomo. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo. Però più che le copertine e i videoclip, che considero un contorno grafico, molti dei miei testi sono fatti di immagini. Da molte mie canzoni è possibile estrapolare una componente visiva molto esplicita, uso le parole per parlare di un’immagine. I miei anni da musicista mi hanno permesso di creare una sorta di colonna sonora della mia vita, adesso con l’arte sto sviluppando la parte visiva, fotogrammi di un film (che è la mia vita) di cui ho già scritto la musica.
Nel tuo lavoro di artista utilizzi spesso oggetti di uso quotidiano e materiali tradizionalmente “extra-artistici”. Penso per esempio al divano utilizzato nell’installazione presentata nella tua mostra personale intitolata Cristian Bugatti (2010) da Motelsalieri di Roma. Oppure al quadro tagliato dell’opera Inno, esposto in quella stessa mostra. Come scegli i materiali e le tecniche dei tuoi lavori?
Non c’è un metodo preciso. Ho un’idea, e poi cerco di realizzarla. Non carico i materiali di alcun significato, sono solo materiali, sono mezzi, uso quello che di cui ho bisogno senza pormi alcun limite.
Nel tuo interesse per esprimere sensazioni, cioè rappresentare l’occasionalità e vivere il presente – anzi, come lo chiami tu, il “presentissimo” – io vedo una certa eredità dell’attitudine punk che ti influenzò quando eri adolescente. L’idea di “no future”, “do it yourself” ecc. Che ne pensi? C’è del punk nell’arte plastica e visuale che crei oggi?
Forse nei miei primi anni da musicista ho usato qualcosa del metodo “do it yourself”, ma non mi sono mai considerato un artista punk nel senso stretto del termine. La decostruzione che ha caratterizzato i miei primi anni da musicista non poteva continuare all’infinito, anche perché mi sembrava di ripetermi, e quindi per me stava diventando noioso. Mi sentivo arenato e avevo bisogno di altro. Ecco perché ho fatto dischi molto diversi l’uno dall’altro, per sentirmi il meno imprigionato possibile. E ora occuparmi di arte mi fa sentire ancora più libero di buttarmi in nuove avventure. E non so come andrà a finire!
Ti interessa avere uno stile artistico personale ben definito e chiaramente riconoscibile, o questo è per te un aspetto secondario del tuo processo creativo?
Mi sono sempre rifiutato di adottare uno stile specifico, questo lo puoi notare anche dalle mie produzioni musicali, così diverse una dall’altra. Lo stesso vale per l’arte. Una delle mie più grandi preoccupazioni è non confinarmi in una metodologia precisa. Non so se riesco a spiegarmi, è un po’ come fare della mia irriconoscibilità un segnale di riconoscibilità.
Nel 2010 hai presentato, alla VM21 Arte Contemporanea di Roma e con la curatela di Pericle Guaglianone, una performance intitolata Sento tutti gli occhi addosso, che ha registrato una grande affluenza di pubblico e una buona ricezione critica. Allo stesso tempo ha suscitato anche un certo imbarazzo e disorientamento in coloro che hanno assistito/partecipato all’evento. Mi puoi parlare di quell’opera?
È la prima performance che ho realizzato. Volevo mettere l’osservatore nella condizione di essere osservato, un po’ come ribaltare il rapporto opera/utente. Ho posizionato 70 persone lungo il perimetro interno alla galleria e ho detto loro di guardare chiunque entrasse nella galleria, tutto qui, solo guardare. Facevo entrare i visitatori uno alla volta, di modo che fossero soli, senza nessuna possibilità di relazionarsi con nessuno. Non potevo sapere quali reazioni avrebbe scatenato. Qualcuno sorrideva, altri entravano e uscivano subito per l’imbarazzo, un tipo invece si è fermato dentro e non voleva più uscire!
Recentemente hai allestito nella Galleria Room di Milano la tua ultima personale, intitolata Cristian Bugatti. Ci parli di questa mostra?
Ho esposto una sola opera dal titolo The sound of love. Si tratta di un’installazione fotografica, formato 8×4 metri. È stato un lavoro abbastanza complesso da realizzare, ma volevo confrontarmi con qualcosa di grandi dimensioni, era una cosa che dovevo a me stesso, un modo per mettermi alla prova. Inoltre mi interessava il fatto che lo spazio della Room fosse relativamente piccolo: un’opera di un certo impatto in uno luogo piccolo, non potevi non notarla! Eppure ci sono stati alcuni divertenti episodi dovuti al fatto che qualcuno non vedeva l’opera…
Ossia?
Ti spiego. La grande fotografia riproduce fedelmente la parete d’ingresso della galleria ed è capitato che qualcuno non vedesse l’opera perché pensava che fosse la parete vera. Il giorno dell’inaugurazione, nel primo pomeriggio, io ero fuori dalla galleria quando passa un ragazzo, mette dentro la testa in galleria e mi fa: “Non c’è ancora niente…quando allestite?”. Durante l’inaugurazione è successo che qualche persona entrava, si guardava in giro, veniva da me e mi chiedeva: “Ma scusa Cristian, non capisco, non vedo l’opera!“. Il fatto che la stampa fosse di altissima qualità e il fatto che coprisse la parete intera hanno creato questo fraintendimento visivo. Io non avevo pensato a questo risvolto mentre procedevo con il lavoro. Le opere non si possono controllare, vivono di vita propria.
Nel 2010 ti sei trasferito a New Delhi. Da allora stai tra l’India e Milano. Come vivi questa compresenza di culture nella tua vita? Senti che ciò sta influenzando in qualche modo la tua creatività? A cosa stai lavorando attualmente?
Adesso sono stabile a Delhi e di solito vado alle inaugurazioni delle mostre, cercando di sapere ciò che sta accadendo. La scena artistica indiana è molto tipica. Sto facendo diverse cose a Delhi. Più che altro sono idee, appunti per possibili progetti. Sto cercando di sviluppare qualcosa che abbia un valore universale. Io lavoro seriamente quando ho in programma una mostra. Una galleria mi ha fatto una proposta di mostra, ci sto lavorando.
Hai già qualche progetto artistico in mente (o in cantiere) per il prossimo futuro?
L’unico progetto al quale sto lavorando attualmente è prendere gli antinfiammatori, perché mi hanno appena tolto un dente.
Nicola Mariani
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