Muta Imago: archeologia del presente
Dopo aver inaugurato la prima stagione di teatro contemporaneo di Forlì con “Displace”, hanno appena portato a compimento, al Teatro India di Roma, il progetto installativo “Art you lost?”. Abbiamo intervistato Claudia Sorace e Riccardo Fazi di Muta Imago.
Come nasce il dispositivo di Displace?
CS: Siamo partiti da uno spazio e da un tema. Lo spazio è quello costruito con le sottili lame di luce di dieci sagomatori, che circondano la scena e che disegnano a terra una griglia regolare in continuo movimento. Il tema è quello indicato già nel titolo del lavoro: il displacement, lo spiazzamento, la sensazione costante di non avere un luogo sicuro in cui rifugiarsi.
Due anni fa il primo nucleo di lavoro ha creato la prima tappa, che è stata Displace #1 La Rabbia Rossa. Le performer hanno lavorato in stretta relazione con la luce, che da sola costruiva lo spazio, non essendoci nessun altro elemento, se non un sottile strato di polvere e terra che ricopriva la scena. I dieci centimetri del fascio di luce costruiscono uno spazio materiale, concreto, che obbliga a camminare seguendo i percorsi imposti da questi limiti. La polvere a terra rende visibile la frattura tra ciò che è in luce e ciò che è in buio, rende visibile il fascio luminoso, non più solo a terra, ma in tutta la sua altezza. Abbiamo utilizzato la luce come se fosse uno spazio di senso preciso: lo spazio della costrizione, dell’imposizione. Il buio al contrario è lo spazio della libertà, dove il movimento non è più geometrico e regolare, ma può anche seguire le necessità e le morbidezze del corpo umano.
C’è stata anche una seconda tappa di avvicinamento…
CS: Con la seconda tappa Displace #2 Rovine abbiamo inserito un importante elemento: un muro di gesso e sabbia, alto quattro metri e largo sei, che costruiamo insieme alle performer prima di ogni replica e che dopo la prima scena lirica dello spettacolo esplode, crolla, trasformando improvvisamente lo spazio in un luogo fragile e insicuro. A questo punto, per le performer aumentano le difficoltà. Devono seguire gli andamenti della luce, rimanendo nei dieci centimetri a loro disposizione, costruire una narrazione attraverso il loro spostamento continuo sul terreno sconnesso delle macerie che rimangono a terra. Uno spostamento che si declina in marcia, in fuga, in disperata ricerca, in cieca violenza. Ecco, in questo tentativo continuo di trovare una stabilità e una modalità di abitazione di un luogo inospitale e nella conseguente fatica reale che questa ricerca comporta credo si esprima il senso più profondo di questo progetto, all’interno del quale la disponibilità e l’adesione emotiva delle performer rappresenta un punto centrale.
Quale ricerca è scaturita da questo progetto?
RF: L’anno scorso abbiamo chiuso Displace, un progetto che ci ha tenuto impegnati per due anni. Alla fine dello spettacolo la scena è completamente ricoperta di macerie, detriti. Dal centro, si innalza una costruzione in ferro, simile alla carena di una nave. Sola, lontana ormai dal racconto e dall’impianto sonoro e visivo che lo accompagna, non racconta più nulla: sembra una rovina la cui storia, ormai perduta indietro nel tempo, si potrebbe recuperare solo attraverso un attento lavoro di analisi e scavo. Quella scena già conteneva il futuro del nostro percorso: un futuro di indagine attraverso la ricostruzione. Di scoperta di ciò che è importante a partire da quello che rimane. Di analisi del reale attraverso la costruzione di una finzione che però muove dalle vere tracce che quel reale lascia dietro di sé. La ricostruzione a partire da quello che rimane, la creazione di un’archeologia del presente, il tentativo di ricostruire l’essenza di qualcosa a partire esclusivamente dai frammenti minimi: questo è il nostro campo di indagine attuale.
Quali forme sta prendendo il “tentativo” di cui parlate?
RF: Siamo entrati, con Una settimana nella vita, insieme a dodici giovani artisti, nelle vite di altrettanti abitanti di Mondaino. In quel caso gli artisti venivano ospitati, 12 ore su 24, nella vita di altrettanti abitanti del paese: il sindaco, la maestra della scuola elementare, l’apicoltore, diventavano il soggetto da ritrarre. Insieme a lacasadargilla, Luca Brinchi, Roberta Zanardo e Matteo Angius abbiamo ideato Art you lost?, progetto installativo e multisegnico che si realizza attraverso la raccolta e la trasformazione delle tracce lasciate da centinaia di persone invitate a compiere un percorso. Dalle macerie le tracce. Gli oggetti. Necessità di ricostruire.
In concreto, come avete raccolto e trasformato queste tracce?
RF: Le circa 600 persone che a fine 2012 hanno risposto alla chiamata, venendo al Teatro India di Roma a portare il loro oggetto, hanno compiuto un percorso semplice, privato, individuale, sviluppato su tre corridoi, una sala e la sartoria, con una durata, a discrezione dei partecipanti, tra i 15 e i 40 minuti. Il percorso si articolava in 10 stazioni, ognuna delle quali ospitava un dispositivo che ha permesso a ogni partecipante di lasciare, in modo più o meno consapevole, le proprie tracce ‘performative’ – materiali destinati poi a diventare i contenuti dell’opera. Oggetti personali, ma immediatamente e naturalmente condivisi. Ogni stazione conteneva precise indicazioni (sonore o scritte) sulla traccia da lasciare, rendendo il partecipante creatore, il pubblico autore: comporre la propria data di nascita con dei cubi, deporre il proprio oggetto in una scatola, farsi un autoscatto (scegliendo il colore per il proprio sfondo), inoltrarci l’ultimo sms inviato prima di iniziare il percorso, … Ogni traccia ha poi trovato una sua collocazione, che ne ha moltiplicato il senso e la sensazione, nell’installazione finale, realizzata negli stessi spazi del Teatro India a fine dicembre 2012 e riproposta nel febbraio 2013.
Art you lost? ha portato con sé nuove domande?
CS: Art you lost? si è rivelato un progetto dalle implicazioni importanti, che necessiteranno sicuramente di un’ulteriore riflessione. Mette in campo questioni che da qualche tempo stanno attraversando il nostro lavoro, spostandone lo sguardo e l’azione. Questioni che hanno a che fare con il senso del nostro fare: come rinnovare il rapporto tra opera d’arte e pubblico? cosa vuol dire e che senso ha fare teatro oggi? cosa può e deve contenere al suo interno la parola teatro perchè possa tornare, risemantizzandosi, ad avere un valore vero e condiviso? E questioni che hanno a che fare con il modo: il rapporto tra realtà e finzione, l’oggettivazione di stati interiori negli oggetti e nelle tracce che lasciamo dietro di noi, nella quotidianità e nei momenti straordinari. La possibilità di creazione di storie di finzione che partano dall’utilizzo di avvenimenti realmente accaduti e dei materiali da questi prodotti; la ricerca delle tracce che ci restano a disposizione di luoghi e ambienti dove bisogna ricostruire quello che è accaduto a partire da quello che rimane.
Quale sarà il vostro prossimo passo?
CS: Tra pochi giorni entreremo in prova con In Tahrir. In Tahrir ha a che fare con le domande di cui parlavo. La protagonista di In Tahrir è una ragazza che scompare, durante una delle manifestazioni più importanti della storia del Medio Oriente. Di lei restano solo delle tracce: uno zaino, un cellulare, tutto quello che ha scritto o postato su internet fino a pochi minuti prima della sua scomparsa. A partire dalle tracce che di lei siamo riusciti a trovare, stiamo costruendo questo lavoro.
Michele Pascarella
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