Ha senso un ennesimo libro su Andy Warhol? L’ultimo numero di Riga, 380 pagine di saggi a lui dedicati, chiarisce a gran voce che la risposta è sì. Il fraintendimento della sua opera è infatti ancora frequente, anzi è ormai uno sport di massa, vista l’enorme diffusione del suo nome e del suo lavoro.
Si guardi a un episodio marginale ma sintomatico. Bergamo, Gamec, 2011, mostra La classe non è acqua: gli alunni delle scuole reinterpretano capolavori di grandi artisti. I lavori ispirati a Warhol sono esplosioni di colore, la vivacità cromatica è l’unica cosa percepita e non c’è traccia nei rifacimenti della piattezza che caratterizza l’originale. Le nuove generazioni, forse, non notano nemmeno più la bidimensionalità, essendo circondate da essa, senza via di fuga.
Ma la sottovalutazione del potenziale critico ed eversivo di Warhol non riguarda solo i giovanissimi: la possibilità di una mimesi critica da parte dell’opera d’arte è ormai del tutto trascurata dalla massa e dal discorso pubblico sull’arte.
Il numero monografico di Riga (scritti di Warhol, antologia di saggi storici, nuovi contributi) è impostato in modo da sfatare tali incomprensioni e sceglie come tema principale, come sottotesto dell’opera del re della Pop Art, la morte. Non una morte biografica, contingente o esistenziale, ma quella morte programmata e sempre ripetuta che è lo svuotamento dell’individuo, l’alienazione.
I film di Warhol sono le opere in cui ciò è più evidente. Nel libro, lo scritto del 1968 di Alberto Arbasino descrive alla perfezione il linguaggio (ben strutturato, nonostante il tratto dell’improvvisazione) e il significato simbolico di un’opera come Chelsea girls. Dei film parla anche l’estratto da Il cinema di Andy Warhol di Aprà e Ungari, testo pionieristico per l’Italia, oggi introvabile: un esempio di quali libri sull’artista andrebbero ristampati, e di come la sua opera meriti una trattazione “scientifica” e non legata a biografie e miti mondani.
Per James Ballard Warhol è Un Walt Disney drogato (scritto del 1989), per Jean Baudrillard (1990) siamo davanti a uno “snobismo macchinale“, per Hal Foster (nel libro un contributo del 1996) la definizione giusta è “realismo traumatico“. E la presenza a distanza di poche pagine di autori come Foster e Danto fa risaltare come Warhol sia un esempio cardine per le più importanti trattazioni teoriche sull’arte degli ultimi decenni, come, appunto, il “ritorno del reale” di Foster e la “trasfigurazione del banale” di Danto.
Il volume rende conto anche dei dibattiti sull’argomento e presenta un suggestivo ma infruttuoso tentativo di confutazione della teoria di Danto da parte di Bertrand Rougé (la teoria del filosofo statunitense si potrebbe forse smontare solo con gli strumenti su cui si basa, ovvero quelli della filosofia analitica: Rougé vi si accosta inizialmente ma poi devia dal rigore necessario).
Uniche pecche del libro, i molti refusi ed errori di traduzione, oltre alla debolezza dei contributi visivi degli artisti Carlo Fei e Luca Pancrazzi.
Stefano Castelli
Riga 33. Andy Warhol
a cura di Elio Grazioli
Marcos y Marcos, Milano 2012
Pagg. 384, € 25
ISBN 9788871686479
www.marcosymarcos.com
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