Alessio Delfino, fotografia da esportazione
Il 2013 è il suo annus felix, con quattro mostre nelle città tra le più importanti per l'arte contemporanea e per la fotografia: da Parigi a New York, da Bruxelles a Berlino. Tutte in gallerie private. Al pari di tanti altri artisti e fotografi italiani, Alessio Delfino propone, ed esporta, la propria arte con risultati in controtendenza rispetto alla nenia di chi dice “l'arte italiana non esiste all'estero”. La verità, è che sono le istituzioni a non supportarla adeguatamente. E come sempre in Italia, chi fa da sé ottiene riconoscimento.
La tua fotografia mette il corpo femminile al centro, usandolo come un pretesto per esplorare differenti linguaggi e stili fotografici.
Quello del corpo è un linguaggio, che l’arte usa da millenni. Prendi la scultura della Grande Madre: è una delle opere d’arte più antiche della storia dell’uomo. Il mio è un viaggio senza destinazione dentro questo linguaggio che suscita in me diverse reazioni nel tempo e quindi differenti soluzioni creative.
Hai appena concluso una prima doppia personale a Parigi, presso la Galerie Coullaud&Koulinsky, dove hai portato gli scatti della nuova serie, Rêves. Com’è nata?
Volevo rappresentare quel mondo che abitiamo quotidianamente ma che resta sospeso tra il conscio e l’inconscio. Rêves nasce in seguito ad un periodo di forti tensioni interiori, da un crollo inatteso. Ho quindi focalizzato il mio lavoro su un desiderio. Questo, secondo l’etimologia della parola, è “avvertire la mancanza delle stelle“, pertanto indica un vuoto incolmabile per definizione. Però è anche quell’inesauribile stimolo che ci spinge avanti perché credo che, nel profondo, ci appaghi il semplice e complesso fatto di “desiderare il nostro desiderio”.
Anche in questo caso usi il corpo della modella come materiale di costruzione linguistica per dire altro, usando la fotografia come un meccanismo di produzione e di riproduzione della dimensione onirica.
I sogni sono la testimonianza di un desiderio metafisico che costituisce il nostro essere alla radice. E sono anche il ponte lanciato verso di noi dai nostri desideri, dalle nostre ambizioni, i nostri demoni e le nostre paure più profonde. Ho cercato di condensare l’attimo del risveglio, in cui tutto è vago e le tracce mnestiche si accavallano. Per me è la parte più interessante dell’esperienza onirica.
In essa fondi molte immagini di uno stesso soggetto, trasformando il corpo in pianta, animale o ammasso quasi minerale.
Volevo rappresentare quella sintesi di più istanti che è l’esperienza filmica del sogno e del suo ricordo: solitamente è un’immagine sbiadita fusa dentro se stessa come in una danza. La sovrapposizione produce appiattimento e pesantezza.
È una serie molto particolare, la fotografia diventa opera unica…
Ogni opera finita è una “fusione” unica, una composizione studiata nei dettagli. La fotografia può rappresentare un’esperienza unica ed irripetibile, mi piace molto l’idea che possa diventare unica, come un dipinto o un disegno.
In essa riprendi la lezione cubofuturista in chiave postmoderna. Come ti rapporti con la storia dell’arte?
Non mi interessa molto come riferimento, ma culturalmente fa parte della mia vita interiore. Visito mostre che mi colpiscono o affascinano, però non mi ritrovo nelle correnti o negli stili del passato.
Con Coullaud&Koulinsky hai esposto con nomi importanti, in una collettiva a Marsiglia, capitale della Cultura Europea 2013. Che città hai trovato?
È una situazione dai forti contrasti, in grande trasformazione. C’è l’atmosfera del sud della Francia con il fascino di una grande città multiculturale. In un quartiere popolare c’è il Mama Shelter, disegnato da Philippe Starck, un luogo intelligente, super-contemporaneo, divertente. E con prezzi quasi popolari.
A Bruxelles, presenti la serie Tarots, in una prima personale alla Galerie Antonio Nardone, il curatore belga che ha ideato e dirige la prima fiera off di Art Bruxelles. Com’è nato il progetto?
Attraverso una collaborazione con la mia galleria di Milano, la MC2 Gallery. Nardone stava lavorando a un progetto museale sul fenomeno della Wunderkammer e da quell’invito è nata l’idea di mostrare la serie.
Come nasce la serie Tarots?
Del mio interesse per l’esoterismo, che era già oggetto della serie precedente, Metamorphoseis. L’aspetto della divinazione m’interessa meno dell’aspetto esoterico e culturale. I Tarots sono legati alla conoscenza e ad alcune eterne domande: chi siamo, dove andiamo, perché esistiamo. Sulla loro origine ci sono diverse ipotesi e per alcune sono legati alla Cabala, un insegnamento antichissimo legato all’alfabeto ebraico.
C’è un aspetto anche popolare in essi…
In realtà è un libro che parla per immagini e che permette l’accesso ad una conoscenza più profonda e filosofica. Credo che la riflessione innescata dagli Arcani possa permettere a tutti di elevarsi ad un livello superiore. Non si tratta di misticismo, ma di riflessione, anche razionale se vuoi.
Che però ha una componente simbolica molto forte.
Certo, ed è quel che mi affascina essendo un maniaco del dettaglio, mi perdo ad osservare i messaggi che portano i singoli elementi di un’immagine.
A cosa mira la tua interpretazione?
A raggiungere una rappresentazione energetica, voglio mantenere integra la loro simbologia, voglio che il soggetto emani lo stesso fascino che la carta ha su di me. La rappresentazione può creare un potente campo di forza e l’immagine può raggiungere un potere ipnotico.
Tu lavori quasi esclusivamente in studio, il mondo esterno ti interessa poco?
Lo studio è la mia dimensione, il mio universo formato tascabile. Un luogo che mi dà pace e mi inquieta. Senz’altro è una parte fondamentale del mio lavoro.
Le tue fotografie hanno un gusto retrò, danno l’idea di un’immagine “senza tempo”.
Il passato remoto può essere eternamente presente. Lavoro sul personaggio, per creare un corpo che sia come una maschera del teatro greco antico, che permetteva l’accesso ai personaggi mitologici.
Usi Photoshop in post produzione?
Soltanto le funzioni di preparazione della stampa, che si fanno anche analogicamente. Amo il dettaglio, l’imperfezione minuta della pelle. Una ruga, resa quasi impercettibile sotto il make-up, diventa una storia.
Le tue serie hanno approcci stilistici diversi. Che riferimenti hai tra i fotografia contemporanea? Chi ammiri?
Riferimenti veri e propri non ne ho, ma ammiro Erwin Olaf. Lui ha qualcosa di sublime, anche nei video. Mi piacciono alcuni lavori di LaChapelle, anche se sono spesso troppo vicini ad un’estetica pubblicitaria. Trovo stimolanti i lightbox di Terry Rodgers e mi piace Saudek. Ultimamente sono attratto dalla pittura iperrealista.
A New York, il 20 giugno, porterai i Rêves alla Kips Gallery, del fondatore di una delle fiere off di Armory dedicata all’arte contemporanea coreana. Vi avevi già esposto. A differenza di altri artisti, vivi New York da esterno, che idea te ne sei fatto?
Credo che oggi sia molto diversa dalla New York di Pollock o di Warhol, ma anche da quella dell’era Clinton. Alle sue porte bussa un mondo intero che chiede di emergere, non soltanto socialmente, ma anche artisticamente. Penso all’Oriente, al sud America, all’Europa dell’est e all’Africa. Ogni volta, a New York mi sento come uno straniero nella Roma imperiale qualche decennio prima del crollo.
Il 31 ottobre inaugurerai una personale a Berlino, nella nuova sede del dinamico Paolo Erbetta, che come altri ha lasciato l’Italia.
È la logica reazione al momento sociale, culturale, economico che stiamo vivendo in Italia. O scappi o muori. Una scelta amara, ma sensata, la sua. La cultura e l’arte sono un motore economico. In buona parte d’Europa lo sanno.
Dicono che gli artisti italiani all’estero contano poco, secondo te è vero, e perché?
Il gallerista italiano è esterofilo, a volte fa trendy esporre artisti di cui non riesci a pronunciare il nome; quello straniero, invece, è protezionista. Lo spazio per gli artisti italiani si comprime sia a casa che fuori. Si riesce a passare, ma la fatica è molta.
Sul tuo sito citi la donna come strumento di conoscenza. Non temi che qualche femminista ti tacci di neo-maschilismo?
I maggiori fan e collezionisti, li ho tra il pubblico femminile. E giustamente, perché leggono nelle mie opere un modello di donna che non è la musa borghese, che incarna la bellezza, ma la il volto e il corpo di un principio universale, produttivo, creatore. Le culture ancestrali questo lo sapevano bene, ma anche Courbet quando dipinse L’origine du monde.
Nicola Davide Angerame
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