L’arte sembra essere, soprattutto in questo ultimo secolo, il regno dell’assenza di regole e limiti, nel quale l’artista può fare quasi tutto quel che vuole. Che cosa spinge un giurista a occuparsi di arte contemporanea?
Gli incontri tra arte contemporanea e diritto sono vari e di varia intensità. Si tratta di incontri, poi, la cui valenza assume un significato diverso da Paese a Paese. L’esigenza di un’indagine anche in chiave comparatistica dei diversi settori del diritto che possono applicarsi all’arte contemporanea muove da un’osservazione di carattere generale: l’evidente e imprevedibile evoluzione dei modi di espressione dell’arte, anche quella nei luoghi pubblici, cui il diritto deve prendere in considerazione. Il giurista attento alle manifestazioni di arte contemporanea può agevolmente rilevare una certa inadeguatezza delle categorie giuridiche create e riconosciute dal diritto per il mondo dell’arte. Si tratta di categorie classiche, basti pensare alle definizioni e requisiti ai quali si riferisce il diritto d’autore, cioè materialità, unicità e originalità dell’opera, ispirate dall’arte classica – da quadri e sculture – e che ben si adattavano a un modo di esprimere la creatività, quando questa era centrata sulla figura dell’artista-soggetto, autore materiale, e sul suo prodotto-oggetto, l’opera.
Oggi, quando ci si volge a osservare la trasformazione dei modi espressivi dell’arte contemporanea – divenuta ormai, e da quasi un secolo, concettuale, effimera, ibrida, appropriazionista e in divenire – il ritardo del diritto si palesa in modo evidente. Le misure del diritto, poi, si rivelano ancor più rigide e limitative, quando ci si addentra nelle scansioni definitorie, totalmente artificiose, che si ritrovano nelle diverse normative specialistiche: si pensi ad esempio a quelle adottate dal diritto tributario o dal diritto doganale.
Preme forse una riflessione sul rapporto tra arte contemporanea e sfera pubblica: di quali misure dispone il diritto ai fini della regolamentazione di tali opere?
Direi che quella stessa inadeguatezza risalta anche quando si confrontano le regole che disciplinano l’intervento dell’artista nel luogo pubblico, secondo la concezione contemporanea di arte negli spazi sociali. Anche riguardo all’arte nei luoghi pubblici, manca ogni misura del diritto: il carattere temporaneo e la ‘site-specificità’ di molte opere non trovano riconoscimento, a livello di sistema, in alcuna regolamentazione. In altre parole, il diritto resta imbarazzato di fronte all’inversione delle categorie di spazio e tempo così come sono state proposte dall’arte classica al diritto anch’esso classico: l’opera, materiale e definitiva, in un tempo illimitato e in uno spazio indifferente. Ora invece: l’opera in uno spazio che rileva e, anzi, col quale è in relazione necessaria, e, a volte, per un tempo limitato e in una forma non definitiva.
Più in generale, le trasformazioni delle forme espressive hanno stravolto i riferimenti del diritto, rendendo sempre più incerta la tutela dei diritti dell’artista, in particolar modo quando manca la concreta materialità dell’oggetto, riferimento necessario, per la maggior parte degli ordinamenti, per l’attivazione della stessa tutela giuridica. Un simile ritardo e imbarazzo lo si rileva altresì quando si tratta di far ricorso agli strumenti per la circolazione delle nuove forme di espressione delle arti visive: l’immaterialità dell’oggetto sfida il diritto dei contratti e della proprietà.
Questo ritardo, o questa inadeguatezza dell’approccio, impone un ripensamento e, soprattutto, una sensibilizzazione del giurista, sia esso giudice, avvocato o studioso, e una evoluzione dei suoi assiomi. Non necessariamente e non in ogni caso mediante la fondazione di nuove norme, quanto piuttosto, e prima, nella revisione e nella estensione dei criteri di interpretazione della disciplina esistente. Questo il mio messaggio.
Nel 2010 si è tenuto a Torino un convegno nel quale sono stati affrontati i problemi giuridici inerenti alle pratiche artistiche contemporanee. Tra questi, l’identità dell’opera, la sua riconoscibilità e tutela. In quell’occasione è stato redatto anche il Manifesto per i diritti dell’arte contemporanea. Come è nato questo testo?
Il convegno di Torino, voluto e organizzato da Gianmaria Ajani e da me, è nato proprio dalla necessitante considerazione di sollecitare e indagare i vari settori del mondo e del mercato dell’arte contemporanea per evidenziare le molteplici e complesse problematiche del rapporto tra arte contemporanea e diritto. Gli atti del convegno sono stati raccolti nel volume I diritti dell’arte contemporanea edito da Allemandi. È in questa occasione che Anna Detheridge ci ha lanciato la sfida di ripensare in modo radicale la funzione dell’arte contemporanea per l’Italia: siamo ripartiti proprio dall’affermazione della necessità di un generale riconoscimento, come già è accaduto da tempo altrove, della funzione sociale dell’arte.
Chi ha contribuito alla sua stesura?
Con Gianmaria Ajani, Gianni Bolongaro, e gli artisti Luca Bertolo, Chiara Camoni, Ettore Favini, Maddalena Fragnito, Linda Fregni Nagler, Alessandro Nassiri e Antonio Rovaldi abbiamo proposto un programma che, oltre alla affermazione di principi, contenesse anche linee concrete di intervento. Questo manifesto è dunque una proposta di programma culturale e di politica sociale per una generale riconsiderazione della fondamentale significatività dell’arte nella società.
Quali sono le proposte avanzate sulla base del manifesto?
Elaborazione e affermazione di principi fondamentali, proposte concrete di revisione dei criteri e dei presupposti. Non credo sia tanto necessario avere più regole per colmare il divario normativo e culturale che si è aggravato negli ultimi anni. Le regole in Italia ci sono, ma sono poco e male applicate. Esistono, piuttosto, nel diritto alcune utilità per l’arte contemporanea che possono interessare e coinvolgere tutti i soggetti che vi operano. Le utilità riguardano in primo luogo una funzione del diritto che è stata lungamente posta in secondo piano: la funzione di comunicazione. Con il manifesto si tenta di perseguire, come scopo generale, il valore aggiunto dell’informazione che deve connotare i rapporti di fatto tra gli operatori. Strumento centrale per svolgere questa funzione è il contratto, sia nei rapporti privati fra artisti e collezionisti galleristi, sia (sotto forma di bando) nell’arte in spazi pubblici. Ho pertanto lavorato insieme agli stessi artisti nominati sopra, che per l’occasione si sono riuniti in un gruppo, Vladivostok, per realizzare il progetto di redazione di “nuovi modelli di contratto per gli artisti” anche con l’intento di evidenziare la complessità dell’oggetto “opera d’arte contemporanea”, le esigenze di un rapporto che la stretta di mano tra artista e gallerista e collezionista non riesce più a esaudire. Senza proporre rigidità o meri formalismi né strumenti volti alla mera tutela di parti deboli del rapporto, la proposta dei modelli di contratto vuole promuovere e favorire rapporti più trasparenti e informati. Oggi i testi sono a disposizione di tutti gli artisti che ne facciano richiesta al sito www.avladivostok.org e si trovano, commentati, nel mio libro “I contratti degli artisti. Nuovi modelli di trattativa edito da Giappichelli.
Non solo, lo studio di questi temi ha suscitato interesse per un’altra questione che ho ritenuto fondamentale e urgente per l’arte contemporanea, perché relativa al rispetto dell’identità dell’opera: quella che ha per tema la conservazione e la riattivazione delle opere d’arte contemporanee. Rispetto al restauro, oggi, il diritto classico che considerava categorie generali avendo a fronte l’opera-manufatto, conservata in collezioni private o in musei, deve essere riformulato al fine di contemperare gli interessi in tensione degli artisti che producono opere effimere con gli aspetti della conservazione delle stesse. L’arte contemporanea ha necessità di essere corredata da un gran numero di informazioni perché sia rispettata l’idea e la volontà dell’artista: deve essere dunque sollecitata l’informazione e la prova documentale e il contratto, che è scambio di informazione, e rappresenta, a questo fine, un utile, quanto necessario, strumento. Questo è ora un progetto che porto avanti, anche a livello di sperimentazione, con Maddalena Fossombroni di Malaspina, del Castello in movimento di Sarzana, e che è stato già presentato, nelle sue linee essenziali, a ICOM nel dicembre del 2012.
Affrontare oggi la questione dell’arte vuol dire anche riconoscere come la sua svolta concettuale abbia profondamente mutato i parametri produttivi, espositivi e di fruizione. In entrambi i libri, lei si sofferma a lungo su queste innovazioni. Quali sono i motivi essenziali del suo interesse per l’arte concettuale?
L’arte concettuale ha operato una magia: ha fatto cose con parole, ha sostituito all’opera un documento e ne ha stravolto il concetto di identità, realizzando oggetti contingenti e in divenire. Ho proposto un esame delle pratiche dell’arte concettuale ed effimera, per evidenziare la necessità di individuare nuovi parametri di riferimento nella considerazione giuridica della nozione di opera d’arte che tenga conto sia dell’opera che del procedimento creativo dell’opera stessa, prescindendo dalla materialità. L’arte concettuale ha inteso scardinare proprio i principi su cui si fonda tutt’oggi la ratio stessa del diritto morale d’autore: la tutela dell’opera in quanto frutto dell’atto di creazione come espressione della personalità dell’artista. Il principio di fondo affermato attraverso le pratiche dell’arte concettuale è quello di far uscire l’opera-oggetto dal mercato, o quantomeno non ritenerlo unico modo, proponendo al suo posto opere-idee. Dove, però, l’opera perde di corporeità, l’artista, per lasciare traccia delle proprie creazioni, fa ricorso anche alla documentazione: è la certificazione dell’artista a rendere possibile l’esercizio del controllo sull’opera e la sua trasferibilità. Ciò ha creato poi tutta una serie di questioni attuative per assicurare certezza a questo genere di transazioni: si pensi ad esempio alla complessità della numerazione dei certificati di Sol LeWitt.
Tuttavia per tali opere-istruzioni, che ho denominato “opere-documento”, le creazioni, ad esempio, di Sol LeWitt, Lawrence Weiner, Felix Gonzalez-Torres e altri. Vi è coincidenza tra certificato e opera d’arte: dove l’opera è sussunta nel certificato e questo, costituendone progetto e memoria, la tutela e circola al suo posto. Diverso, e ancora di più difficile comprensione per il giurista, è il meccanismo di identificazione nel certificato per le opere che dipendono dalla prestazione dell’artista: come per le opere-conversazione (penso a quelle di Ian Wilson) o le opere-lezione (come quelle di Heman Chong) nelle quali il collezionista da accumulatore di opere-oggetto diviene destinatario fruitore di prestazioni d’opera intellettuale delle quali permane, eventualmente, un’attestazione che certifica la prestazione ricevuta, una sorta di “attestato di partecipazione” che, tuttavia, non risponde o ripropone l’idea sviluppata dall’artista. Il certificato acquista un’aura pari a un’opera, e circolerà come opera, non contenendo più nulla materialmente, tuttavia, dell’opera iniziale. O ancora, si è giunti ad apprezzare “opere-situazioni”(come quelle di Tino Sehgal o quelle proposte, prima, da Yves Klein e, oggi, da Cesare Pietroiusti): si tratta di opere prive di qualsiasi tipo di traccia materiale e fondate esclusivamente sul funzionamento di meccanismi memoriali. Questi passaggi costituiscono una rilevante reinvenzione dell’arte e il diritto ne resta imbarazzato. Il mercato ha già accettato questi meccanismi di circolazione delle opere effimere, il giurista può solo prendere atto e, per ora, avventurarsi in un approccio innovativo, prendendo in considerazione non il bene, non essendo attrezzato di strumenti specifici per valutare questo nuovo genere di opera d’arte visiva come un bene in senso proprio. E dunque importante procedere all’esame di queste pratiche affinché il giurista adegui fin d’ora i criteri tradizionali per applicare il diritto d’autore, troppo legato a schemi classici, e il diritto civile troppo vincolato a una oggettualità del bene, per riconoscere l’opera concettuale, attribuendo significato non solo all’oggetto in sé, ma anche al contesto nel quale è realizzato e alla rilevanza specifica e particolare dell’interesse del collezionista.
Se le opere fossero davvero solo idee, allora sarebbero invendibili e non costituirebbero problema alcuno per il diritto. Tuttavia, come noto, queste sono ben vendute e collezionate. Inoltre, se le opere fossero idee, vi sarebbe anche il problema di non poterle dichiarare di proprietà di qualcuno. Come si tutela e si disciplina la produzione concettuale?
Come ho detto, l’arte concettuale si è fin dall’inizio legittimata in via autonoma e, di fatto, il mercato l’ha accettata e fatta circolare per ciò che è. L’arte effimera ha fatto ampio uso degli strumenti del diritto, contratto e certificati, per circolare, elaborando regole certamente valide dal punto di vista dell’affermazione di fatto di assoluta paternità intellettuale dell’opera, ma di dubitabile attuabilità giuridica. I complessi meccanismi creati da Buren per il trasferimento delle proprie opere, attraverso l’adozione di un particolare schema contrattuale, sono in questo senso paradigmatici.
I problemi sorgono quando è il giudice a essere chiamato a qualificare e riconoscere un’opera d’arte: l’opera rischia di non trovare tutela e di non essere riconosciuta come tale. Per questo è importante portare avanti un lavoro di ricerca capace di fornire al giudice nuovi criteri di attribuibilità delle categorie classiche per evitare che si presentino ostacoli al riconoscimento di un’opera concettuale effimera, così da evitare che un giudice, al cui giudizio sia sottoposta un’opera di Dan Flavin costituita da elementi illuminanti al neon, possa statuire, come di recente gli è stato chiesto di fare, “questo per il diritto non è un’opera d’arte e pertanto non è possibile attivare le tutele del caso”. La tutela dell’arte concettuale passa attraverso l’informazione e la documentazione della volontà dell’artista rispetto alla sua idea. Quel paradosso dell’arte concettuale per cui l’opera stessa in galleria risulta smaterializzata e negli archivi corposa e complessa, richiede che si rilegga il valore del certificato di autenticità rilasciato dall’artista, e si attribuisca importanza al contratto, perché è bene precisare che, rispetto a tutti gli altri documenti – scripta e cataloghi – che non hanno una valenza giuridica normativamente fondata, deve esser dato determinanza a tutto ciò che è espressione, anche di fattiva materialità, dalla volontà dell’artista alla descrizione dell’opera da parte sua e all’interpretazione autentica che ne fornisce in ciascuna riattivazione. Ritorno qui sull’importanza e attualità del tema della conservazione delle opere contemporanee e della complessità delle opere che richiedono una riattivazione.
Possiamo dire allora che il giurista rinnovi i propri strumenti e modelli, prendendo in esame esattamente le innovazioni introdotte dagli artisti concettuali (ossia considerando in particolare le certificazioni, la produzione di documenti sostitutivi delle opere, l’uso dei contratti…)?
Sì, proprio così: sono gli artisti che hanno intuito e formulato l’istanza per un giusto percorso.
Davide Dal Sasso
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