Negli stessi anni, nel mondo anglosassone, la sottocultura gothic/dark – forse la costola più feconda dell’intero post-punk, al punto da influenzare almeno per il biennio 1981-82 praticamente tutta la scena musicale pop – dava voce al medesimo spirito. Il macro-tema post-apocalittico è inerente alle espressioni del gothic, non urlate come nei film contemporanei ma più “depressive”. È un’atmosfera che informa i testi delle canzoni e persino il look dei protagonisti, la consapevolezza di vivere un’epoca per molti versi terminale e al tempo stesso essere prigionieri del passato, posseduti dal suo fantasma: “Gothic music reiterates that we never get rid of our past, that we are possessed or haunted by our bygones, It underlines psychological detachment. […] Something is corrupted and cannot be redeemed” (Atte Oksanen, “Hollow Spaces of Psyche: Gothic Trance-formation from Joy Division to Diary of Dreams”, 2007, p. 124)
È un approccio estenuato che deve molto all’estetica romantica e decadente – il XIX secolo, d’altra parte, segna la nascita della post-apocalisse moderna, sganciata dal testo biblico – e alla sensibilità fin de siécle, citata fin nei minimi particolari. Dai Joy Division ai Cure ai Christian Death, l’elemento-chiave è il compiacimento morboso nell’abbandono, nella disperazione e nell’autocommiserazione, veicolati dalle parole ma soprattutto dai suoni, molto più complessi e articolati rispetto a quella monocordi e volutamente ottusi del punk: “Il nichilismo ha preso il sopravvento. […] Cantavamo: ‘Non importa se moriamo tutti’. Ed era esattamente quello che pensavamo a quel tempo” (Robert Smith, cit. in Jeff Apter, The Cure: Disintegration. Una favola dark, Arcana Editrice 2006).
Ma nell’universo del dark c’è anche spazio per la versione più esplicitamente barbarica – dunque perfettamente in linea con quella cinematografica – della post-apocalisse. È il caso, per esempio, dei Killing Joke di Jaz Coleman, i cui suoni duri e brutali e le cui copertine morbose strutturano quella che fu prontamente definita “death disco”, rappresentando una tensione generazionale genuinamente millenarista, ben oltre gli elementi di moda e di stile: “[…] Coleman vedeva la loro musica come ‘suoni d’allarme per un’epoca di autodistruzione’. La fine era vicina (‘non oltre diciotto mesi’, profetizzava nel 1981), ma Coleman era felice, non afflitto. La conseguenza era ‘il periodo di tempo che al momento aspetto con impazienza’, quello in cui una nuova e primitiva inciviltà sarebbe emersa come una fenice dalle rovine fumanti” (Simon Reynolds, Post Punk 1978-1984, Isbn Edizioni – Il Saggiatore 2006, p. 528).
Anche gli irlandesi Virgin Prunes scelgono il medesimo orizzonte culturale, dando vita a performance tribali caratterizzate da un suono accattivante e paradossalmente iperprodotto. A New York, la lezione della no wave e di Glenn Branca dà vita al noise, nella versione raffinata e sottile dei Sonic Youth, ma soprattutto in quella monolitica e selvaggia degli Swans, che portava alle estreme conseguenze le idee dei Joy Division e dei Killing Joke per raggiungere esiti che, non a caso, furono spesso definiti “il sound dell’apocalisse”. Subito dopo, in questa stessa temperie nascono nuovi generi, come l’apocalyptic folk di Current 93 e Death in June, che nel 1984 cantavano: “They’re making the last film / they say it’s the best / and we all helped make it / it’s called the death of the West” (Death of the West, da Burial). Immediatamente dopo il dark (che, per quanto popolare, rimaneva pur sempre un fenomeno giovanile underground, confinato entro circuiti sottoculturali ben definiti e limitati), il macro-tema della post-apocalisse si impossessa della cultura mainstream.
Il biennio 1983-84 registra una crescente isteria collettiva legata alla paura della guerra atomica e alla cosiddetta Seconda Guerra Fredda, caratterizzata dalla tensione tra mondo occidentale e Unione Sovietica e dalla corsa agli armamenti. La Terza Guerra Mondiale occupa uno spazio fisso, e molto ingombrante, nei primi anni Ottanta. Tra programmi di difesa ‘stellare’ da una parte e missili puntati sull’Europa occidentale dall’altra, il 1983 vede l’uscita di due film per la tv, The Day After di Nicholas Meyer e Testament di Lynne Littman: si tratta di due pellicole corali, che mettono in scena il “dopobomba” di due famiglie ordinarie, appartenenti alla middle-class americana; pur nella povertà dei risultati, va segnalato l’enorme impatto sul grande pubblico, dovuto principalmente proprio all’identificazione con questi gruppi. L’anno successivo in Inghilterra viene trasmesso il docu-drama Threads, la risposta della BBC a The Day After: più crudo, lucido e ambizioso rispetto alla sue controparte americana, Threads utilizza lo stile realistico, convincente del documentario per descrivere la portata concreta degli eventi e la vita dei sopravvissuti al fallout.
Inoltre, nel 1985 viene finalmente trasmesso alla televisione inglese The War Game di Peter Watkins, che pur essendo stato realizzato nel 1966 e avendo vinto un Oscar come miglior documentario, era stato bloccato per vent’anni dalla BBC che aveva giudicato il contenuto del film troppo “too horrifying for the medium of broadcasting”. The War Game è concepito come un programma di approfondimento, con riprese di carattere documentaristico, interviste ai passanti e contrasti clamorosi tra le tranquillizzanti dichiarazioni ufficiali e gli spaventosi effetti visibili.
La post-apocalisse penetra anche nel mondo ovattato e glamour del New Pop, e alcuni video musicali testimoniano questa influenza. Two Tribes (1983) dei Frankie Goes To Hollywood, incentrato proprio sulla paura dello scontro finale (“Are we living in a land / where sex and horror are the new Gods? / Yeah / When two tribes go to war / A point is all you can score”), allestisce un incontro di boxe tra Reagan e Breznev che termina in una rissa collettiva, preludio all’autodistruzione mondiale. Mentre in Dancing with tears in my eyes (1984) degli Ultravox, il cantante Midge Ure corre a casa dopo aver scoperto che la vicina centrale nucleare sta per esplodere: lì ritrova la moglie e il figlio, e dopo aver stappato una bottiglia di champagne e aver messo su il disco preferito, con qualche lacrima la coppia si abbandona all’esplosione e alla distruzione dei propri ricordi (un filmino in Super-8 che si liquefa). Il tema della post-apocalisse è talmente popolare e di moda in quel breve periodo, che persino in Italia il Gruppo Italiano festeggia l’“abbronzatura atomica” (Tropicana, 1983).
Christian Caliandro
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