Lo scorso 4 aprile è morto Roger Ebert (Urbana, 1942 – Chicago, 2013), il più noto critico cinematografico americano. Il primo ad aggiudicarsi nel 1975 il Premio Pulitzer per la critica e l’unico nel suo campo a poter vantare una stella sulla Hollywood Walk of Fame dal 2005. Stimato nell’ambiente artistico e rispettato dai lettori anche tra la gente comune, Ebert ha condotto il tv show Sneak Previews e ha scritto per quasi cinquant’anni per il Chicago Sun-Times con stile pulito e graffiante, sempre legittimato da un sapere autentico e dall’impegno costante nel promuovere e diffondere la settima arte. Contribuì al suo successo il celebre approccio critico “relativo” e non “assoluto” in base al quale ha analizzato con la medesima onestà intellettuale film di qualsiasi genere, dal pop al cinema d’autore. E mentre ne sentiamo già la mancanza, non resta che trovare conforto nell’attesa di Life Itself, documentario che Martin Scorsese gli ha dedicato in veste di produttore, la cui uscita è prevista nel 2014.
Il dispiacere per la scomparsa di Roger Ebert si accompagna a una riflessione sullo stato della critica cinematografica italiana che porta a chiederci, non senza amarezza, se una figura come la sua potremo averla mai. E non perché non ci siano persone preparate che offrono la propria esperienza come una guida, spendendosi quotidianamente per dare il loro contributo al dibattito culturale e alla formazione di spettatori consapevoli. Dimentichiamo infatti l’idea che il critico sia un vecchio bacchettone che spara sentenze che vanno a premiare solo film barbosi e lontani dal gusto del pubblico. Al contrario, siamo dell’idea un po’ romantica che il critico educhi, indirizzi, insegni e – perché no? – offra una propria proposta culturale, distinguendo il buono dal mediocre e l’eccellente dal pessimo secondo criteri precisi anche se non necessariamente unanimi.
Le ragioni per cui da noi non si intravede un nuovo Ebert sono molte. In primis perché in Italia la critica non è un mestiere. È piuttosto un’arte quella di barcamenarsi tra lavori di vario genere riuscendo quasi magicamente a conciliare la sopravvivenza con il fare cultura. Ma poi chi sono, oggi, i critici cinematografici? Giornalisti di professione che alternano la cronaca delle Olimpiadi al parere sull’ultimo film, sparuti ricercatori universitari in perenne precariato o giovani attempati, laureati in cinema senza prospettive che riempiono le redazioni delle testate specializzate online? In realtà, a giudicare dalla presenza massiccia di commenti e consigli per gli acquisti sui social network e sui blog, come al bar sport, il vero critico cinematografico si celerebbe in ognuno di noi. Se in altri campi, infatti, vi è ancora un minimo senso del pudore che impedisce di esprimere il proprio parere senza avere la minima conoscenza della materia, il cinema sembra invece essere il terreno che legittima chiunque a dare libero sfogo al proprio talento inespresso. Un fiume incontenibile di giudizi scorre sul web con tanta arroganza quanta mancanza di argomentazioni, suffragati da altrettanti “like” compiacenti che hanno il sapore liberatorio della frase sulla Corazzata Potëmkin di fantozziana memoria.
Prendiamone atto, il critico non piace a nessuno. Vissuto con fastidio e diffidenza, tacciato di snobismo e intellettualismo, è puntualmente bersaglio di facile ironia. Ed è strano che la competenza in quest’ambito non rappresenti un valore, perché quando ci fa male qualcosa e andiamo dal medico pretendiamo che sia il più bravo a curarci e mai ci sogneremmo di discutere con lui la terapia… Ma non sarà che il critico spaventa? Forse perché involontariamente ci fa scontrare con dei limiti? Nemico del banale, del facile e dello scontato, capace di non fermarsi alle apparenze, di non limitarsi al “cosa” del racconto ma scavando più in profondità fino al “come”? E allora risulta più rassicurante ascoltare il parere del vicino, dell’uomo qualunque o del famoso di ritorno dall’Isola che quasi sempre la pensa come noi. Oppure si tratta semplicemente di un malcostume dei tempi, di una deriva un po’ patologica della democrazia del web? Può anche darsi che qualche anno fa qualcuno alzasse un sopracciglio leggendo l’opinione di Tullio Kezich o di Callisto Cosulich, di Alberto Farassino o di Paolo Mereghetti, ma di sicuro non avrebbe osato mancare loro di rispetto né cercato con ogni mezzo di convincerli che è la loro opinione a essere sbagliata.
Eppure la delegittimazione del critico oggi parte dall’alto. A partire dai festival, che delegano sempre più numerosi il giudizio dei film al pubblico o a giurie composte esclusivamente da attori e registi, cui ultimamente si affida perfino la direzione artistica delle manifestazioni. Ma non ha senso che a esprimersi sui film in concorso ci sia almeno qualcuno che fa questo per “mestiere” o formazione? Abbandonare il giudizio alla sola giuria popolare, non rischia di condizionare il mercato e la distribuzione dei film, orientandoli verso un progressivo appiattimento dell’offerta con prodotti sempre più di consumo e intrattenimento? Senza il filtro della critica che accoglienza avrebbero avuto La Dolce Vita o L’Avventura? Siamo certi che il pubblico non ne avrebbe decretato l’insuccesso apostrofandoli come “noiosi” o “troppo lunghi”?
Insomma, nell’Italia degli opinionisti e del televoto, nell’Italia populista e qualunquista, buonista e iconoclasta, esiste ancora un futuro per il critico cinematografico 2.0?
Beatrice Fiorentino
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