Serena Porrati, la geologia e la finanza
Ha un'attrazione per gli opposti: da un lato la passione per la tecnologia, dall'altro un attaccamento alla natura, al rurale che sfocia nel primordiale. A influenzarla l'adolescenza trascorsa in campagna sul Ticino. Dopo gli studi a Brera, ha intrapreso una serie di viaggi che l'hanno portata a frequentare un master al Central Saint Martins di Londra. Qui, per il suo ultimo progetto alla British Library, è riuscita a mettere in relazione discipline disparate come la geologia e la finanza. Perché nella realtà, “niente è poi così definitivamente diviso”.
Che libri hai letto di recente e che musica ascolti?
Austerlitz di Sebald, Il più grande uomo scimmia del Pleistocene di Roy Lewis e Critica e clinica di Deleuze. Leggo spesso pezzi di Metafore della Visione di Stan Brakhage: è un eccellente compagno di viaggio. Musica: di recente ascolto molto i Fall.
I luoghi che ti affascinano.
Quelli poco definibili, i posti ai quali ti abitui, che impari a guardare. I campi incolti o le strade di campagna adiacenti alle strade trafficate, i boschi residui dove aspettano le prostitute. Mi piacciono i paesaggi discordanti come via Padova a Milano, da cui nei giorni limpidi si vedono le montagne innevate. Forse mi affascina semplicemente tutto ciò che è ibrido e periferico. Adoro Los Angeles.
Le pellicole più amate.
This is a history of New York di Jem Cohen, Dog Star Man di Stan Brakhage, Deserto Rosso e Zabriskie Point di Antonioni, Anna di Grifi, La Soufrière di Werner Herzog, Sans Soleil di Chris Marker e i documentari di Wiseman. The Turin Horse di Béla Tarr, America Oggi di Robert Altman, The Wicker Man di Robin Hardy e Walkabout di Nicolas Roeg. Adoro l’esattezza formale dei film di Maya Derain. L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi è stato uno dei miei primi film preferiti.
Artisti guida?
Apprezzo l’arte quando mi disorienta, più che guidare. Quando dischiude universi e visioni lontanissime da me, ma per assurdo familiari. È riduttivo fare un elenco, a volte mi dimentico i nomi, a volte sono artisti sconosciuti o lavori specifici.
Hai partecipato a tanti workshop con personalità molto diverse, dal teorico Lev Manovich negli Stati Uniti all’artista Liliana Moro al Corso della Ratti…
Le professionalità nel mondo dell’arte e della ricerca fanno un lavoro che è una forma di vita e di pensiero: questa è la cosa più potente in un workshop, al di là dell’argomento di cui si parla o intorno al quale si lavora.
Hai un’attrazione per gli opposti. Tecnologia da un lato, natura dall’altro.
Pensando che in realtà niente è poi così definitivamente diviso, le nostre categorie, i nostri opposti sono strutture che ci imponiamo per cercare di dare un senso alla realtà o a quello che facciamo e conosciamo. È un problema linguistico, e m’interessa capire come superarlo.
Non hai una formazione scientifica, ma il tuo approccio è molto analitico.
Mi piace inventare dispositivi di visione per interpretare lo spazio o gli oggetti che mi circondano. Così è nato Patterns of Decay and Dissolution, “scomposizione filmica” della struttura decadente di una pianta. È un accanimento analitico su un soggetto non scientifico, irrilevante. È questa scientificità istintiva che m’interessa. Il lavoro Se siete abbastanza vicini per vedere, siete troppo vicini per evitarla è nato da una visione illogica della realtà, è un intervento nel paesaggio che crea una sensazione di mistero e distacco. È un segno alieno in un luogo pubblico, ma lontano da zone abitate. Si rivolge anche a spettatori non umani. Chissà se il coleottero acquatico ha notato qualcosa di diverso nella sua pozzanghera.
Hai realizzato una serie di film adottando un approccio a metà fra l’antropologo, l’etologo e il documentarista. Al centro: il paesaggio, il mondo animale e l’intervento dell’uomo, anche se la sua presenza sullo schermo è limitata.
Sì, nel film Inexpressible Island ad esempio ho assemblato oggetti sparsi che alludevano alla natura senza essere naturali, cioè prodotti dall’uomo. È diventato un collage di rappresentazioni. Non c’è mai l’uomo e non c’è mai la natura, c’è gran parte di ciò che gestisce e organizza questo dualismo.
Fai entrare la natura anche nella sfera sessuale. Penso a Snow Balls, un quaderno sul quale inviti le persone a descrivere il paesaggio in cui hanno fatto sesso all’aperto.
Il sesso è una pratica che ancora ci accomuna agli animali. Mi piace credere che la percezione del paesaggio in questi racconti sveli qualcosa di altrettanto antico e primordiale.
Per il tuo ultimo progetto alla British Library hai realizzato una serie di fotografie, mettendo in relazione geologia e finanza.
È un archivio fotografico delle pietre che rivestono gli edifici delle banche di Londra. Le pietre conferiscono un’idea di solidità e forza a qualcosa che solido e stabile non è. La serie gioca su questo “travestimento”. Svela l’architettura del pensiero.
Com’è nata l’immagine inedita per la copertina di questo numero?
È scattata alle porte di Milano, in un bosco abbattuto per lasciare spazio a una strada. Era principalmente composto da robinie, alberi dalle spine robuste e a volte velenose. È una protezione primordiale e ridicola, irrimediabilmente inerme.
Daniele Perra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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