Dialoghi di Estetica. Parola a Italo Zuffi
Riprende in tutta la sua dialogicità la rubrica del LabOnt dell’Università di Torino. E visto che le ultime interviste davano la parola a galleristi e docenti, questa settimana si torna agli artisti. A Italo Zuffi, in particolare.
Prima di tutto ti chiederei: che cos’è secondo te un’opera d’arte?
Il risultato particolare di un processo particolare. Un materiale qualsiasi costretto a ri-entrare nel mondo. L’artefice di questo (l’artista) prima sottrae quella presenza dal mondo, poi ce la fa entrare di nuovo. Quello che un artista produce era già incluso nel mondo, ma decide che da lì è temporaneamente necessario portarlo via, assentarlo. Nel periodo in cui tiene quel materiale con sé, lo sottopone a un certo processo di riorganizzazione, ne plasma la forma in una sua sintesi, provoca alterazioni. L’artista sottrae e poi riporta, ma quello che restituisce è modificato: a volte di diverso ha solo l’odore, altre volte invece risulta irriconoscibile.
Nel 2008 hai realizzato una performance alla Rotonda della Besana di Milano che consisteva in una partita a bocce con degli ortaggi. Hai voglia di dirci qualcosa di più su questa tua opera?
Si tratta di Partita a bocce con ortaggi, performance ispirata da una performance simile che avevo realizzato qualche mese prima, a Basilea, ma dove avevo utilizzato frutti. Il gioco delle bocce è stato uno dei passatempi da adolescente in Romagna. È quindi la permanenza di un puro desiderio agonistico che me l’ha fatta concepire. Mi sono limitato a introdurre una variazione, l’aggiunta di una complicazione (la difficoltà nel determinare traiettorie e comportamento degli ortaggi a ogni lancio), mentre regole e forma del gioco sono rimaste le stesse.
Ultimamente il tuo lavoro è sempre più determinato dall’incontro con gli altri, dalla condivisione e la mediazione di idee e contenuti. Penso in particolare a performance come Toothpick geometries del 2008, Lettere di motivazione e I am very excited, entrambe del 2011. Possiamo dire che al centro delle tue attività vi sia prima di tutto una riflessione su azione e condivisione?
Come introduzione agli ultimi laboratori che ho condotto, ho sempre annunciato il desiderio di volermi rivolgere a un corpo collettivo, a una sola entità che deve quindi organizzarsi in funzione di questa mia proposta. Sono attratto da immagini di gruppo, dalla possibilità di creare comunità temporanee. In un ambito di scambio, come può essere un laboratorio, sono per ottenere la maggiore intensità possibile e questa è la ragione per cui preferisco azioni o coreografie collettive piuttosto che traiettorie individuali.
Ti chiederei un approfondimento sull’azione e, in particolare, sul mistero e la paradossalità agentiva che indaghi con la tua opera The mystery boy del 2001.
The mystery boy venne realizzata a Birmingham, in Inghilterra. Ero artista in residenza presso la School of Art e di tanto in tanto uscivo dallo studio che mi avevano assegnato per stabilire qualche relazione con gli studenti. A uno di questi, Jake, proposi di lavorare attorno a un pezzo di polistirolo, di utilizzarlo come oggetto di scena. Gli chiesi di distendersi su una moquette grigia e di restare aggrappato a un pezzo di polistirolo, quasi un uomo in mare. Gli spiegavo come e quando cambiare posizione. Di fatto ero soprattutto io a muovermi: gli giravo attorno con la macchina fotografica, mentre lui era questo sorta di perno attorno a cui centrifugavo con il mio occhio. Lo scopo dell’azione non venne mai fissato, e fu questo a determinarne il titolo.
In Rete è possibile reperire alcune tue biografie nelle quali si legge che il tuo pensiero è da tempo attratto dai concetti di “competizione” e di “fede rustica”. Vuoi spiegarci cosa significa?
Mi sono interessato a quei concetti dal momento in cui hanno iniziato a ricorrere nei miei lavori. Voglio dire, da una parte ci sono quelle opere che si (pre)occupano di rappresentare una certa tensione agonistica e competitiva, che ad esempio visualizzano e interrogano il contesto di traduzione e circolazione/diffusione del mio lavoro (anche in forma di note biografiche riguardanti una mia certa difficoltà a comprendere pienamente i concetti di riconoscimento e successo). Dall’altra, quelle opere invece in cui è evidente il desiderio di interrogare il concetto di origine; la fede rustica è allora un’aspirazione e un legame, anche archetipico, con il concetto di “provenienza”.
Durante la nuova edizione dei Dialoghi di Estetica a Rivoli lavorerai a un workshop pomeridiano pensato appositamente per gli studenti selezionati per la Summer School. Tu hai una certa esperienza in lavori di questo genere. Più volte, però, hai tenuto a precisare che i laboratori o le performance che progettavi dovevano essere agite (o esibite) in una variante ‘non-spettacolare’ o ‘micro-performativa’. Vuoi farci capire meglio cosa intendi con queste due specificazioni?
Il termine micro-performatività l’ho utilizzato di recente in un testo per una piccola pubblicazione su alcuni miei laboratori di performance all’Accademia Reale di Belle Arti dell’Aja. Non credo si tratti, di per sé, di un’intuizione originale: anche altri, soprattutto in ambito teatrale, possono a volte fare riferimento a un concetto simile. La maniera in cui lo intendo io: un lavoro su quella macchina scenica che è il corpo verso una sua esposizione (i suoi movimenti, la sua voce, il suo portato emotivo), ma facendo sì che questo non comporti un sopruso o una forzatura. Inizialmente questo concetto l’avevo pensato come contraltare rispetto a altre modalità che invece perseguono una espressività in chiave drammatica o spettacolare. Ora forse questa intenzione è meno rigida, e si tratta più di un lavoro incentrato sulla reiterazione e sulla messa a fuoco.
Davide Dal Sasso e Vincenzo Santarcangelo
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