È tempo di red carpet
Ogni evento di questi giorni prevede un red carpet: il Festival di Cannes, la mostra del MET sul punk a New York e quello per David Bowie al V&A di Londra, la Biennale d'Arte a Venezia che sta per aprire dove sfilano quei protagonisti dell'Olimpo Contemporaneo che non fa più distinzioni fra creativi, artisti, chef, attori e altri potenziali testimonial per ogni griffe che si rispetti.
Quel red carpet nato per proteggere le scarpe preziose dal terreno al passaggio di principi e nobili, usato per evidenziare un percorso privilegiato, per delimitare uno spazio inaccessibile ai comuni mortali, è diventato il luogo di massima celebrazione del fashion.
Un red carpet conta più di una passerella in una sfilata, più di un articolo o un redazionale, paradossalmente più accessibile al reportage di blogger senza scrupoli che lanciano sul web in tempo reale quanti abiti erano di uno o di un altro stilista. Un vero e proprio ring su cui combattono i brand, accaparrandosi il testimonial più trendy e vestendolo spesso senza pensare a dove sta andando.
Le polemiche sull’ingresso dei vip alla mostra Punk: Chaos to Couture di recente inaugurata al MET di New York rendono più evidente l’atteggiamento di inadeguatezza di certi abiti nei confronti dell’occasione, in questo caso rafforzata da chi era parte integrante di quel mondo nato quarant’anni fa, esplicitamente in contrasto con l’eleganza, che non ha visto di buon occhio un red carpet di couture così lontana dal movimento più sottoculturale della storia. Allora viene da chiedersi se quei famosi fashion designer si siano posti il problema o se se lo devono porre le star che indossano gli abiti. Ma è certo che, se c’era un tema da svolgere, in tanti sono andati fuori dal concept. Vedendo le immagini, nel migliore dei casi alcuni segni iconici di quel movimento sono stati usati su una haute couture come citazioni banali: la spilla da balia o le cerniere lampo diventano décor, stravolgendo completamente lo spirito trasgressivo dell’uso che ne faceva Sid Vicious o la stessa Vivienne Westwood, presente sul red carpet con un abito lontanissimo dal suo stile universalmente riconosciuto. Neanche Madonna, che ha fatto scuola per la capacità di anticipare i look a seconda dei tempi e delle evoluzioni culturali, è riuscita a presentarsi in modo efficace: la sua citazione al punk stava solo nell’eccesso delle calze strappate.
Meglio scegliere lo stile, possibilmente il proprio, aiutati da un fashion designer capace di adeguarlo all’occasione: ecco che vince, e non è la prima volta, Tilda Swinton in Haider Ackermann al vernissage della mostra sul Duca Bianco, realizzata a Londra dal V&A in collaborazione con Gucci e Sennheiser. Anche se è vero che la trasgressione di Bowie non era la stessa del movimento punk, infatti è lui che lancia l’importanza dell’immagine del cantante, dello stile che conta tanto quanto il talento.
In una evoluzione e trasformazione dei luoghi di spettacolo, anche il red carpet dovrebbe rappresentare qualcosa di diverso, di più efficace esibizione vista la sua visibilità: senza perdere le caratteristiche di magia che lo rendono un posto dove tutto può accadere, dovrebbe proporsi come esercizio di costume contemporaneo. Come un film dove ognuno interpreta la sua parte e dove gli stilisti diventano costumisti con capacità creative di celebrare l’evento con il personaggio che li rappresenta in quel momento.
Ci vuole cultura oltre che stile, un po’ di sano approfondimento oltre che la forza del nome di chi indossa l’abito, bisognerebbe ispirarsi al lavoro di chi sapeva interpretare il mondo che lo circondava anche quando era ribelle. Ci torna in mente l’eleganza colta e opportuna di Yves Saint Laurent, il suo modo di cogliere i segni della rivoluzione antimilitarista contro la guerra del Vietnam e trasformare il mimetico in texture meravigliosa per abiti da sera, trasferire il suo profondo rapporto con artisti come Andy Warhol e metabolizzarlo nella androginia dei suoi tailleur. Parliamo della metà degli Anni Sessanta…
Clara Tosi Pamphili
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