Golfo mistico
Molte le partecipazioni nazionali dai paesi del Golfo quest’anno alla Biennale di Venezia: Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait. Molte le ambizioni e le aspettative. Ma esiste un discorso comune? Valutazioni e risposte dalla nostra corrispondente in Medio Oriente.
La musica gioca un ruolo importante nella produzione artistica dei Paesi del Golfo, quel golfo definito “Persico” secondo la prospettiva occidentale ma localmente rivendicato come Arabico. La prospettiva può cambiare quasi ogni cosa: si pensi a quella del vincitore rispetto a quella del vinto, tanto per fare un esempio di eclatante ovvietà.
L’edizione 2013 della Biennale di Venezia vede la partecipazione di ben quattro Paesi della penisola arabica: Arabia Saudita (per la seconda volta, se si esclude la presenza di Edge of Arabia nel 2009), Emirati Arabi Uniti (alla sua terza partecipazione), Bahrain e Kuwait, alla loro prima apparizione lagunare.
È una coincidenza interessante da notare il fatto che questi Paesi, a chiara connotazione maschilista, abbiano tutti optato per una curatela femminile: gli Emirati presentano Reem Fadda, curatrice per il Guggenheim Museum della collezione mediorientale; il Regno del Bahrain si affida alla curatela di Melissa Enders-Bhatia; Sara Raza, critica d’arte e curatrice indipendente iraniana di stanza a Londra, in collaborazione con Ashraf Fayadi, poeta e artista, cura il padiglione saudita (inserito però fra gli eventi collaterali e non come partecipazione nazionale); mentre il padiglione del Kuwait è diretto dall’artista e curatrice di origini palestinesi Ala Younes.
Cosa accomuna questi padiglioni, quali caratteristiche ricorrono o, opponendosi, come creano un discorso che possa illuminare la nostra comprensione di una realtà dominata dai cliché e ancora ampiamente misconosciuta in Occidente?
National Works – allestita a Palazzo Michiel – affianca i lavori di due artisti “storici” del Kuwait: lo scultore Sami Mohammad (1943) e il fotografo di origini palestinesi Tarek Al-Ghoussein (1962). Seppur lontani in termini generazionali, Ala Younes sembra aver optato per una scelta di sostanza, per un dialogo non diretto fra gli artisti, bensì mediato dalla presenza dell’architettura e della ritrattistica ufficiale che contribuì a caratterizzare la definizione di un’identità nazionale agli albori della nascita della nazione nel 1961. Operando sul terreno della dialettica fra pubblico e privato, declinata in molteplici variabili, la curatrice punta su un aspetto dell’esperienza individuale in questi Paesi regolati da regimi totalitari ma spesso illuminati, in cui tuttavia il singolo non è un interlocutore, ma deve accettare di occupare la posizione, spesso troppo comoda, di suddito. E lo fa proiettando il discorso retrospettivamente o comunque ricorrendo a un palinsesto strutturale che contribuisce a traslarne l’essenza e a universalizzarla.
In una prospettiva simile, seppur facendo uso di strumenti significativamente diversi, Reem Fadda ha scelto di abbracciare un tema universale e di renderlo esperibile da parte dei visitatori della Biennale. Mohammed Kazem, il solo artista chiamato quest’anno a rappresentare gli Emirati Arabi Uniti, lavora da oltre un decennio sul progetto Directions, per il quale impiega le coordinate fornite dal GPS in una serie di lavori in cui l’uso di riferimenti spazio-temporali si traduce in molteplici configurazioni, in aperta sfida delle leggi fisiche più comuni e accettate.
Mantenendo la promessa fatta due anni or sono, il Bahrain partecipa quest’anno per la prima volta alla Biennale con la mostra In a World of Your Own. La tormentata situazione politica del 2011 costrinse l’allora commissario del padiglione (e quest’anno curatrice) Melissa Enders-Bhatia a rinunciare a presentare il lavoro di Waheeda Malullah (ugualmente selezionata quest’anno) e Hassan Hujairi (sostituito da Mariam Haji e Camille Zakharia). Malullah, che ha recentemente presentato a Dubai – nell’ambito della mostra MinD/Body curata da chi scrive – alcune immagini dalla serie Talk with God, ripropone a Venezia il lavoro fotografico A Villager Day Out (2008), una serie di immagini in cui il contrasto fra bianconero e colore focalizza l’attenzione sulla condizione e il ruolo della donna nella società islamica, un ruolo controverso in cui sembrano prevalere la connotazione infantile e lo statuto di “minore” rispetto alla rivendicazione di una piena maturità e incidenza sul contesto socio-politico locale.
All’opposto lato della scelta adottata dal Kuwait, Rhizoma (Generation in waiting) – ai Magazzini del Sale – punta lo sguardo sulla più giovane generazione di artisti sauditi. Come spiega la curatrice Sara Raza: “Il rizoma, la radice di una pianta che contrariamente al solito si sviluppa lateralmente, viene usato come metafora per la generazione attuale di giovani artisti sauditi. Questi artisti, come un rizoma, sono parte di una rete sotterranea, presentano un approccio stilisticamente indipendente e distintivo, tecnologicamente astuto e sperimentale, con l’abilità di rompere con la tradizione corrente per formare nuove radici”. Fra i giovani artisti chiamati a “sostituire” la generazione ormai internazionalmente riconosciuta e rappresentata da Ahmed Matar, Manal Al Dowayan e Abdulnasser Gharem, per l’Arabia Saudita ci sono Ahaad Al Amoudi, Ahmad Angawi, Basma Felemban, Nasser Salem, Nora A. Al Mazrooa, Nouf Alhimiary, Sami Al Turki, Sarah Al Abdali, Sarah Abu Abdullah e Shaweesh.
Cristiana De Marchi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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