Il problema della ricezione (IV)
Quando è finita l’avanguardia? Quando l’arte ha smesso di cimentarsi nella sperimentazione radicale, di esplorare la complessità della condizione umana per trasformarsi in un giochino autoreferenziale? Christian Caliandro riannoda i fili di questa mutazione. Dall’avanguardia alla società dello spettacolo
Di recente sono andato a vedere Suite A, un bellissimo spettacolo teatrale studiato e creato per i bambini da Mirto Baliani e Marco Parollo, come prima tappa del progetto Fuocofatuo. L’ebollizione dell’acqua nelle pentole costruisce una nuova dimensione sonora e visiva, decisamente spaziale, a partire da frammenti di realtà banali (“costretti a invertire le loro competenze”, come recita il libretto). Mentre al buio stavo a sentire e a vedere, mi è venuto in mente che tutto rimandava a canzoni-non canzoni come Alan’s Psichedelic Breakfast dei Pink Floyd (da Atom Heart Mother, 1970), o come a quelle dei Faust e degli Amon Düül II. Tutta roba che viene dritta dritta dagli anni Sessanta.
Nel corso degli anni Sessanta, il modernismo affronta la sua deformazione e si inerpica nel suo lato oscuro. Attraverso il passaggio esplorativo – e l’apprendistato naturalistico – del Neorealismo, si costruisce una forma di sperimentazione che si nutre dell’avanguardia storica. Funzionano così i film di Antonioni, il Gruppo 63, il Nouveau Roman, Robert Rauschenberg, Andy Warhol e persino il Pasolini di quel giro di anni. E, subito dopo, la fantascienza della new wave: di romanzi come Il signore dei sogni (The Dream Master, 1966) di Roger Zelazny, Violare il cielo (To Open the Sky, 1967) di Robert Silverberg, Rapporto sulla probabilità A (1968) di Brian W. Aldiss e Ubik (1968) di Philip K. Dick.
Il pop è il risultato di una mutazione antropologica: il pop è questa mutazione antropologica.
Una frattura totale e assoluta, che coincide con una rotazione del contesto, del quadro di riferimento. Quello dell’avanguardia e del modernismo tradizionale era un discorso tutto sommato unitario, condotto su basi certe e comunemente accettate di rapporto con la realtà, esteriore e interiore, che venivano approfondite e intrecciate (Joyce, Proust): “Se mi si esime dalla troppo lunga dimostrazione di un fatto peraltro intuitivo, da circa un secolo in qua i problemi hanno cessato di corrispondere alle difficoltà, e viceversa: le biografie si sono trovate in contrasto con la storia, sono diventate le une all’altra eterogenee […] E l’Altro ha subito approfittato dello scompiglio per mettere avanti le proprie rivendicazioni. Politici e sociologi possono favorire la tregua, magari la pace. Uno degli indizi, allora, sarà che gli artisti daranno di homo fictus un’immagine più confacente a quella che di se stesso homo sapiens ama vedere rispecchiata” (Giacomo Debenedetti, “Il personaggio-uomo nell’arte moderna”, 1963, ne Il personaggio-uomo, Garzanti 1988, pp. 79-80).
Qui, negli Anni Sessanta, c’è il nuovo, l’“immagine più confacente” – che non è né avanzamento né regressione. In questo scarto si riconosce una deviazione, l’inizio ufficiale del postmoderno: un postmoderno profondo e radicale (legato al massimo solo superficialmente al pastiche): non è anti, ma non si esaurisce neanche semplicemente nella dimensione del “dopo”. Questo “dopo” lo disegna e lo crea, basandosi su presupposti diversi – su una logica differente che si costruisce attorno a: cultura di massa; standardizzazione; spettacolarizzazione; globalizzazione; neoliberismo; infantilizzazione/nostalgia.
Che cosa significa questo, in termini culturali? Probabilmente, che nei singoli territori (letteratura, arte, musica, cinema, design) si comincia usando apparentemente lo stesso linguaggio, lo stesso codice, e comunque riferendosi alla medesima tradizione culturale del naturalismo-modernismo. Abolendola dall’interno. Cancellandola gradualmente dall’orizzonte, con i suoi stessi strumenti.
Si continuano a produrre libri (e scrittori), opere (e artisti), film (e registi), ma non è più la stessa cosa. A partire dagli anni Sessanta, l’arte smette progressivamente di riflettere sulla natura angosciosa della condizione umana e della modernità, e getta tutto in burletta (o in “autoriflessività”, che in definitiva è lo stesso). L’arte abdica alla stupidità (l’altro nome dello spettacolo), al nulla e all’assenza-di-senso, invece di interrogarli ossessivamente e senza tregua.
Ovviamente, non si tratta di un processo immediato. Gli strascichi della “maturità” durano almeno fino ai primissimi anni Ottanta (il post-punk, Cruising di William Friedkin, Toro scatenato e Re per una notte di Martin Scorsese potrebbero esserne considerati a pieno titolo gli ultimi fuochi).
Poi: la distruzione dell’individuo, e della sperimentazione radicale.
Christian Caliandro
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