La Kodak Girl sta con Instagram. Colloquio con Martha Cooper
Se mai l’inafferrabile mondo dell’underground ha avuto una biografa ufficiale, questa è Martha Cooper. Reflex in mano, ha raccontato l’epopea dei graffiti dai primi Anni Ottanta fino ai giorni nostri. Di passaggio a Milano per presentare “Making an Appearance”, la fotografa discorre con Artribune su passato, presente e futuro della Street Art. Partendo da Basquiat e arrivando a Instagram.
Hai seguito l’evoluzione della Street Art fin dai primi giorni: quando si è avvertito il passaggio dalla fase pioneristica a quella che avrebbe poi preso piede nelle gallerie e nei musei?
Il più grande cambiamento avviene nel passaggio tra la sfera underground e una dimensione internazionale, nel momento in cui si passa da ragazzini che scrivono semplicemente il proprio nome a quello che vediamo oggi, anche in musei e gallerie. Tutto è nato attorno alla semplice scritta fatta col pennarello. Senza stencil, pittura, carta, fotografia. Solo il tuo nome scritto su un treno, senza immagini. Questo era lo stile e il linguaggio “classico”, legato esclusivamente all’aspetto dei graffiti. Poi è arrivato il resto, e si è evoluto nelle forme della Street Art che conosciamo oggi.
Tutto nasce negli Stati Uniti, patria del consumismo, per lo più in un periodo storico come quello dei primi Anni Ottanta. L’idea stessa di fare del proprio nome un brand non è in sostanza un’appropriazione delle tecniche di comunicazione del marketing?
L’idea in origine era molto vicina a quella della pubblicità: metti il tuo nome il maggior numero di volte che puoi nel maggior numero di luoghi e situazioni, così che sia visto dal numero più alto possibile di persone. Non necessariamente gente comune: l’obiettivo era che fosse visto dai tuoi amici e dagli altri writer. A New York un treno della metropolitana corre dal Bronx lungo tutta Manhattan fino a Brooklyn, per cui un writer di quel quartiere può leggere il nome di un altro che vive a chilometri di distanza e viceversa. In effetti, sì, semplificando molto puoi vederla come un’azione di branding, ed è un fenomeno curioso: perché la gente ha un atteggiamento negativo nei confronti dei graffiti, mentre non critica mai una pubblicità. Che pure è ovunque e molto spesso ha un’estetica peggiore rispetto a quella dei graffiti: c’è un’ossessione nei confronti della pubblicità.
Parli di una stagione eroica, ma oggi la situazione è molto cambiata: quanto si è perso nel corso degli anni di quella energia originale?
Tutti dobbiamo sopravvivere, non criticherò mai qualcuno perché cerca di fare soldi. Credo che questa forma espressiva abbia perso molto quando è uscita dall’illegalità: era emozionante quando questi ragazzini rischiavano così tanto, a volte persino la vita, per fare arte. Perché, quando crei in condizioni del genere, hai una necessità di essere veloce, istantaneo, che rende il tuo lavoro più fresco. Quando entri in galleria lavori con più attenzione, puoi disegnare a lungo, hai più tempo: e credo che questo spesso tolga vitalità a un’opera. E questo è un peccato.
Anche nel caso di un personaggio del peso di Basquiat?
Mi chiedi cosa penso di Basquiat e del fatto che ci sia gente che compra un suo pezzo per un milione di dollari? È incredibile. Credo che il suo lavoro valga così tanto rispetto a quello di altri writer? No, se parliamo in termini economici, non di portata artistica o qualità. E la stessa cosa vale per Banksy o per Obey…
Con Obey si arriva al ribaltamento del concetto di un’arte che nasce in contrapposizione all’ordine costituito, viene perseguitata e finisce invece oggi per contribuire alle cause della politica, se pensi al successo dei manifesti dedicati a Obama.
Tutto ciò è davvero divertente! Ho ricevuto un paio di giorni un invito dal Perù per partecipare a un festival di Street Art. Mi hanno scritto dicendo che hanno il sostegno dell’ambasciata americana per provvedere al mio soggiorno, la stessa cosa mi è successa in questi giorni a Praga. Davvero? L’ambasciata americana? Ma io mostro fotografie di graffiti! Non sono nemmeno legali!
Ti sei concentrata molto su New York nella tua carriera, ma il panorama americano è sterminato: vedi differenze di stili tra una zona e l’altra del Paese?
Non so dirti se esistano differenze di stile tra un’area e l’altra, anche perché è proprio l’idea di una divisione in zone che non rispecchia la cultura dei graffiti: a Chicago, ad esempio, arrivano e creano writer dal Kansas, dall’Indiana, per cui è difficile parlare di una scena locale con un linguaggio proprio. Ogni writer ha il suo stile, per trovare dei legami ci sarebbe da studiare i graffiti in modo sistematico… e non è quello che ho intenzione di fare!
Dalle strade reali a quelle virtuali: anche la Street Art dovrà presto o tardi affrontare la sfida del web…
Penso che stia già accadendo. Solo un paio di anni fa guardavo con diffidenza all’idea di poter fare fotografie con un cellulare quando io ho dovuto spendere così tanti soldi, nel corso degli anni, per attrezzature e materiali. A gennaio ho comprato uno smartphone, ho scoperto Instagram e me ne sono innamorata: mi ha davvero sorpresa! Proprio qui a Milano, mentre stavo arrivando dall’aeroporto, ho visto questo camion su cui è intervenuto un writer, l’ho fotografato dal finestrino … ed è venuto anche bene. In due ore ha raccolto oltre trecento like, più tutti i commenti: gli street-artist ormai condividono il proprio lavoro sulla Rete.
Francesco Sala
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