La parola a Studio++. Al confine tra scienza e percezione
In occasione della grande mostra che li vede ospiti del Leopold Museum di Vienna, abbiamo incontrato Fabio Ciaravella, Umberto Daina e Vincenzo Fiore (meglio noti come Studio++) nel loro studio fiorentino. Una lunga chiacchierata per ripercorrere un’intera ricerca, le teorie che la sostengono e le prospettive possibili.
Nei vostri primi lavori si notano numerosi riferimenti alle teorie scientifiche, che poi nel corso degli anni sembrano lasciare spazio a interessi diversi (seppure affini). Come si è sviluppato questo passaggio graduale?
La nostra ricerca è legata in primo luogo alla maturazione del metodo. I primi lavori erano certo più d’impatto, più immediati, con una dimensione più scultorea. Però in tutti era già presente l’idea del processo, del divenire delle cose come principio di forma, più o meno sintetizzato. L’attenzione al processo ci ha poi condotti verso una maturazione nell’approccio agli aspetti scientifici. Non che il primo fosse immaturo o sbagliato. Semmai, quei lavori hanno aperto una strada, che continuiamo a seguire.
E che conduce fino all’arte pubblica.
Sì, certo, perché l’idea di innescare un meccanismo che poi verrà lasciato svilupparsi in autonomia (relativamente al suo contesto), si adatta bene ai temi dell’arte pubblica e del paesaggio. Aggiungiamo il concetto di paesaggio perché per noi sono due dimensioni tutt’altro che distinte nella contemporaneità. Probabilmente è stata proprio una maturazione di metodo e di attenzione verso il carattere processuale a guidarci verso l’approfondimento dell’arte pubblica.
In che senso?
Un elemento di connessione potrebbe essere l’esigenza di misurare, non solo in termini fisico-volumetrici, lo spazio, cercando al suo interno una regola, un principio che mettesse assieme la matericità e l’immaterialità. Tra i primi lavori e i più recenti, noi abbiamo sempre cercato di comprendere meglio un contenuto dello spazio che spesso sfugge a una prima percezione. I lavori sulla realtà aumentata, per esempio, sono fedeli a questo principio, perché indagano una dimensione parallela allo spazio reale, ma che esiste in maniera verificabile al suo interno.
Da qui l’interesse crescente per le nuove tecnologie.
Quel che c’interessa è come la tecnologia può spiegare la realtà contemporanea, non tanto lo stupore che essa suscita. Dentro le innovazioni tecnologiche noi cerchiamo sempre una declinazione poetica, un senso della contemporaneità il più possibile condiviso che sia in grado di comunicare un’emozione. Questo ci porta ad avere un approccio alla tecnologia più vicino alle percezioni intime e meno a quelle tecnico-oggettive. Mentre prima l’approccio era assoluto, puramente teorico, ora lo abbiamo legato all’approfondimento degli aspetti della vita quotidiana.
Un lavoro che sintetizza bene questo passaggio?
Il progetto per Palazzo Riso a Palermo, per esempio. Un lavoro che usa una tecnologia molto contemporanea, la realtà aumentata, per aggiungere una scritta virtuale sulla facciata del Museo. In quel caso la citazione di Giovanni Verga che abbiamo scelto (“il mare non ha paese nemmeno lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare”), chiama in gioco vari aspetti sociali, dal problema dell’identità siciliana, dell’arte nello spazio pubblico, fino alle più attuali difficoltà vissute nel rapporto artista-museo. Oltretutto, questa è un’opera che richiede una partecipazione attiva da parte del fruitore: se la vuoi vedere la devi andare a cercare, non è un oggetto che ti viene presentato in maniera immediata. Richiede attenzione – l’arte richiede attenzione – e anche questo è un tema che abbiamo voluto trattare.
In questo particolare caso (e in gran parte della vostra ricerca più recente), il vostro lavoro pare mettere nuovamente in crisi la tradizionale “oggettualità” dell’opera d’arte. Come vi rapportate rispetto a questa problematica?
Per noi è un risultato naturale (e non previsto) della nostra ricerca. Non abbiamo scelto di porci in contrasto rispetto ad alcun movimento o tendenza nel mondo dell’arte. Alla domanda: “è giusto o non è giusto mettere al mondo qualcosa di nuovo?”, noi non possiamo rispondere per tutti, naturalmente, perché ognuno avrà la sua legittima posizione a riguardo. Né tantomeno vuole farlo il nostro lavoro. Quello che facciamo, pur nella generale smaterializzazione, conserva una forte matericità, relazionandosi direttamente con i fenomeni naturali. Ma è anche vero che il nostro discorso sfrutta sempre qualcosa che c’è già. Le regole della natura, i processi lenti, le proprietà delle piante, su cui apportiamo lievissime mutazioni (basta girare una panchina, per riscoprire il paesaggio!).
Assai peculiare è la vostra concezione di “scultura”, che si collega con uno dei concetti-cardine della vostra ricerca, quello del “tempo rinviato”. Ci potreste descrivere meglio i margini teorici di questa concezione?
Noi veniamo tutti da studi di Architettura, quindi non abbiamo una formazione pura nel campo dell’arte. Definire un margine teorico, per noi, è veramente molto difficile. Forse abbiamo semplicemente un’impostazione diversa nel vedere un volume nello spazio. Quello che c’interessa è soprattutto come la scultura si relaziona a ciò che gli sta intorno, allo spazio in cui è inserita. Prendi Anno luce. Pensare a una scultura alta un anno luce, permette di percepire una mutazione in atto nella nostra società, per cui il tempo e lo spazio non vengono più rapportati alla vita di un uomo, ma all’infinito.
In tutto questo, una posizione centrale assume il concetto di paesaggio. Cos’è per voi il paesaggio e come intervenite su (o verso) di esso?
La particella giusta è “con”! Noi lavoriamo con il paesaggio. Le nostre idee derivano da una formazione accademica in Italia, dalla scuola francese e dal pensiero di Gilles Clément, per cui ad esempio noi scegliamo di non lavorare mai con energia negativa: non contro ma a favore del paesaggio. Ad esempio nel progetto che faremo presto alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo, guidare la diffusione spontanea di una pianta in un giardino francescano vuole parlare di un confronto etico ed esistenziale con la storia. Ovvero sfruttiamo le regole del paesaggio per dire qualcosa.
E per produrre opere d’arte.
Noi siamo convinti che il paesaggio, in quanto prodotto culturale, abbia una stretta relazione con l’arte. Il concetto di “artialisation” descritto da Alain Roger c’insegna proprio questo. Il paesaggio si è sempre creato nel rapporto con il suo osservatore, che opera una riquadratura fisica, scegliendo gli elementi che andranno a comporlo. Per noi è un’azione che continua a essere possibile. Soltanto che non è più così materiale: è divenuta processuale, culturale.
E passa attraverso le nuove tecnologie…
Per questo abbiamo deciso di lavorare con le webcam online, che non sono altro che porzioni di luoghi (riquadrature) che la gente ha deciso di condividere. Un’azione che per noi simboleggia la creazione di paesaggio contemporaneo paragonabile ad altri modi usati nel passato, in cui l’uomo rappresenta se stesso attraverso il mondo che vive. L’autorialità della comunità che lo abita, il senso collettivo di questo riconoscimento, è una componente fondamentale.
Ma molto spesso il paesaggio è anche un valore da riscoprire. Come avete agito a questo proposito?
Un’altra linea di fascino che abbiamo subito, è quella dell’abbandono. Le manifestazioni di abbandono del paesaggio sono in realtà ricchissime di contenuti. Per esempio il Terzo giardino che abbiamo realizzato qui a Firenze, voleva proporre proprio questo tipo di ragionamento: una porzione di territorio apparentemente degradata, diviene metafora della ricchezza (biologica ed evolutiva) dell’uomo contemporaneo. Noi abbiamo semplicemente creato delle linee, dei percorsi che permettono di osservare questa ricchezza. Abbiamo rilevato una “bellezza” che normalmente sfugge all’osservatore.
L’arte di Studio++ si esprime anche attraverso smartphone, webcam, tablet e realtà aumentata. Da dove deriva questo interesse per le tecnologie contemporanee?
La tecnologia, in sé, non è il soggetto della nostra analisi: quello che ci interessa è piuttosto il rapporto che essa stabilisce con le persone. Questo perché oggi i mezzi tecnologici fanno profondamente parte della nostra quotidianità. Il lavoro Senza titolo (2011), per esempio, ragiona sulle nuove concezioni dello spazio. Anche i bambini conoscono il significato dei gesti nella tecnologia touch (ingrandire, spostare, ruotare), ma vederli tracciati su un foglio di carta, ci aiuta a capire meglio cosa cambia quando una tecnologia è ormai entrata nella vita quotidiana, dentro le nostre concezioni più profonde.
E lo mostrate ibridando tecnologie all’avanguardia con altre pratiche molto più arcaiche.
Questo perché tanto più è possibile creare dei collegamenti tra una tecnologia e qualcosa di atavico, tanto più abbiamo la prova che quella tecnologia stia cambiando in maniera profonda il nostro mondo. Allo stesso modo abbiamo scelto l’impressione stenopeica per cogliere le immagini delle webcam, perché secondo noi la luce del mondo filtrata dallo schermo è una luce con cui ci si mostra la contemporaneità. Poiché è tale, questa luce deve essere colta senza mediazioni, direttamente sulla carta fotografica. La nostra è insomma una semplice analisi che si serve degli strumenti più diretti, ma vuole anche sollevare degli interrogativi, o se non altro stimolare una maggiore autoconsapevolezza nel loro utilizzo.
Altro concetto-cardine nella vostra ricerca è ciò che voi chiamate “relazione di limite”. Come la definireste?
Quando noi osserviamo e riflettiamo sullo spazio web, per esempio, siamo attratti dal limite che esso pone in rapporto alla nostra fisicità. Pensare a un film lungo cinque miliardi di anni (come nel lavoro Domani è un altro giorno), costringe da un lato a constatare la propria limitatezza, ma dall’altro stimola un confronto con l’infinito che ha forme e linguaggi contemporanei. Perché in ogni caso è pur sempre l’uomo che stabilisce una relazione con il suo limite. L’emozione si genera in un confronto attivo, che noi cerchiamo sempre di stimolare.
Uno degli elementi iconografici più ricorrenti nella vostra produzione è il cielo. Un caso, una questione di gusto o anche qualcosa di più?
Il cielo è per noi l’elemento che riesce a parlare meglio di spazio e tempo, perché capace di creare un’unità nel tutto. Secondo la comune percezione dell’uomo, è questa superficie non ben definita, che avvolge ogni cosa.
Ed è al centro del vostro progetto ora a Vienna…
II Leopold Museum ci ha offerto l’occasione per realizzare un progetto che altrimenti non avrebbe mai visto la luce, perché molto costoso. Estendersi usa otto tablet, che ritrasmettono otto diverse porzioni di cielo scelte e condivise da altrettante persone, che poi vengono armonizzate in un tutt’uno. Per realizzarla abbiamo dovuto fare il giro del mondo (virtualmente, s’intende…), cercando le webcam adatte. Ma è stata la natura stessa a darci le regole, perché non potevamo selezionarle a caso: per ottenere un’immagine omogenea, abbiamo dovuto adattarci ai vari fusi orari. A fare l’opera sono state quindi la natura e le persone che hanno piazzato le singole webcam: noi ci siamo limitati a raccoglierle e proporzionarle.
In genere come lavorate?
Ci sono delle divisioni pratiche, che seguono le attitudini dei singoli soggetti. Ma non le riteniamo veramente significative. Il lavoro si fa, quando è possibile, parlando seduti attorno a un tavolo: spesso l’idea parte da uno di noi ed è sviluppata assieme agli altri; oppure è un’idea vecchia, che a un certo punto decidiamo di riprendere. Il processo di lavorazione, poi, lo si può rapportare alla scultura delle pietre dure. Una volta focalizzato il nucleo, lo si inizia a tagliare secondo un affinamento sempre maggiore. È come se un tema avesse già in partenza la sua forma, ma noi dobbiamo pazientemente “risolverne” (almeno per il momento presente) la realizzazione.
Qual è il vostro rapporto con Firenze?
È un rapporto importante, perché Firenze è la conditio sine qua non di Studio++. Firenze è una città che ti impone di pensare al concetto di contemporaneità, proprio perché così tanto lo sottovaluta. Una situazione paradossale, se si pensa che Firenze è quello che è, ora, solo perché secoli fa è stata all’avanguardia nella contemporaneità. E vivere a Firenze oggi, cercando di portare avanti il proprio lavoro di artista, è davvero molto faticoso! Un elemento fondamentale che manca alla base, è un network tra gli artisti, che gli permetta di condividere le idee. Perché presi singolarmente, gli artisti toscani che finora abbiamo conosciuto portano avanti ricerche interessantissime.
Simone Rebora
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