L’Aquila oggi: non c’è più tempo per aspettare il domani
Il rumore della pioggia battente, una silenziosa processione di ombrelli colorati: è il 5 maggio 2013, giorno del primo raduno nazionale degli storici dell’arte, e il centro storico dell’Aquila si popola insolitamente di centinaia di studiosi provenienti da tutta Italia.
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L’iniziativa, promossa da Tomaso Montanari, si è svolta non a caso a L’Aquila perché, come cita un manifesto nel cuore della città, “una zona rossa ovunque si trovi è una questione nazionale”. Ancora oggi, a più di quattro anni dal sisma che devastò l’Abruzzo, transenne si alternano a detriti in un generale stato di abbandono che difficilmente si può raccontare e in cui silenzio e assenza diventano veri protagonisti.
Alla processione segue un incontro presso la Chiesa di San Giuseppe Artigiano, cornice del recentissimo ciclo figurato di Giovanni Gasparro. Ed è qui che gli interventi si susseguono al cospetto di un silenzioso Ministro per i beni, le attività culturali e il turismo, il neoeletto Massimo Bray. A esordire è proprio Montanari, presentando le richieste scritte al nuovo Governo, tra cui spicca la necessità di un costante e articolato programma di restauro del centro storico della città. La storia dell’arte, infatti, “non deve pensare solo a se stessa” ma deve ritornare nella vita dei cittadini. E per fare questo, sostiene Clara Rech, presidente dell’ANISA (Associazione Nazionale Insegnanti di Storia dell’Arte), bisogna partire proprio dalle giovani generazioni, insegnando loro che l’arte è parte integrante dell’identità e della storia di un popolo.
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L’Aquila, 5 maggio 2013 – photo Tommaso Vicinelli
Secondo Salvatore Settis, mai come a L’Aquila è evidente il nesso tra le rovine materiali del suo prezioso centro storico e il degrado civile scaturito dalla cattiva gestione della situazione d’emergenza. Per questo si parla ripetutamente di “ricostruzione civile”: L’Aquila deve essere al più presto restituita ai suoi cittadini, ora protagonisti di un doloroso e forzato esilio in quelle che vengono impropriamente definite new town. Come storici dell’arte abbiamo l’obbligo morale di tramandare una “lungimiranza bifronte” volta al contempo al passato e al futuro, un’etica del bene comune che trae nutrimento proprio in quanto condivisa dai cittadini. Ed è ancora Montanari, con voce ferma, a ribadire la necessità di “dire agli italiani di oggi che le loro città sono belle, non per compiacere i turisti, ma per dare forma alla loro vita civile e politica”.
Per Settis questo incontro ha avuto luogo non con “la pretesa di rivendicare priorità disciplinari, né con la pretesa di insegnare a urbanisti, politici, teologi il loro mestiere” ma perché in quanto storici dell’arte coltiviamo una vocazione e “sappiamo che nelle chiese e nei palazzi, nelle piazze e nelle strade delle nostre città non c’è la polvere e la noia di un archivio, di eventi tramontati e irrilevanti. C’è l’opposto: c’è la vita e la sostanza dell’arte delle nostre culture e delle nostre diversità, delle affinità e delle differenze che sono l’ossatura della nostra storia, che sono il sangue e l’anima di una comunità collettiva senza la quale non vi è porto, non vi è memoria, non vi è uguaglianza, non vi è libertà, non vi è democrazia”.
Ci auguriamo che il Ministro Bray abbia recepito il messaggio.
Elisabetta Masala
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