Venezia. La svolta dei Musei Civici è donna
Dal 2011 è alla guida dei Musei Civici di Venezia, prima dirigeva il Mart di Rovereto. Da quando Gabriella Belli è sbarcata in Laguna, la musica è cambiata. In meglio. L’abbiamo incontrata per fare il punto sulla situazione proprio mentre a Venezia impazza la Biennale d’Arte.
È ora di pranzo e si respira l’aria tipica del giorno di festa. La sede dei Musei Civici è deserta, tranne l’ufficio di Gabriella Belli. Per lei niente ponte del 25 aprile: c’è da seguire l’andamento dell’appena inaugurata mostra di Manet a Palazzo Ducale. Nel frattempo, però, risponde anche alle nostre domande, sempre col cellulare tra le mani.
È tempo di Biennale: qual è l’offerta culturale dei Musei Civici?
Le rispondo con una domanda: si può essere contemporanei anche utilizzando l’antico? Secondo noi sì, e partendo da questa riflessione abbiamo costruito l’offerta dei Musei Civici veneziani. Oltre all’omaggio a Manet, abbiamo concepito un ampio ventaglio di mostre tutte prodotte da noi. Al Correr: una personale sul maestro Anthony Caro, erede della gloriosa scultura inglese e allievo di Henry Moore. Al Fortuny: attraverso la collezione privata di Antoni Tàpies, cerchiamo di tracciare un profilo inedito dell’artista da poco scomparso. A Ca’ Pesaro: abbiamo rifatto il trucco al museo e lo riapriamo con un’esposizione della parte Pop e Minimal della collezione di Ileana Sonnabend. Questo, però, è un progetto più temporaneo che permanente.
Abbiamo pensato anche ai giovani, con tre mostre dal gusto indubbiamente contemporaneo. A Ca’ Rezzonico c’è la mostra A Very Light Art: una serie di artisti che si cimentano con il tema della luce e del lampadario (ispirandosi a quello storico presente nel museo). Invece al Museo di Scienze Naturali c’è Bestiario Contemporaneo: 22 artisti italiani – non convocati in Biennale: tra cui Cattelan, Vezzoli e Pivi – espongono i loro lavori che si rifanno al tema natura. Infine, a ottobre, negli spazi di Ca’ Pesaro esporremo la parte più concettuale della collezione Panza.
C’è anche una mostra su Emilio Vedova…
Esatto: Vedova Plurimo. In realtà, più che di una mostra, si tratta di due gradi installazioni dell’artista veneziano: una piazzata nella Sala delle Quattro Porte del Correr, l’altra, enorme, nell’atrio di Ca’ Pesaro.
Dunque, non c’è un “gemellaggio artistico” con la Biennale.
I Musei Civici hanno fatto un grande passo in avanti: non ospitiamo mostre della Biennale. Non ci consideriamo più solo spazi da riempire. Non siamo più luogo, ma una Fondazione che sa guardare anche al contemporaneo. In questo caso potremmo parlare di gemellaggio di traiettorie culturali.
Inaugurando un filone contemporaneo, non c’è rischio di fare concorrenza?
Quello che proponiamo noi è molto diverso dagli altri. Non c’è concorrenza. Siamo molto differenziati. È vero, l’offerta è enorme, però non ci sono cose che si sovrappongono. E poi sono dell’idea che abbiamo tanto bisogno di contemporaneo, perché l’aggiornamento è fondamentale.
Ma con tutta questa offerta culturale – Biennale, Musei Civici, Palazzo Grassi, Guggenheim, Fondazione Prada ecc. – non c’è il rischio di stordire il fruitore?
Io credo che il fruitore dell’arte contemporanea sia molto selettivo. Perché l’approccio all’arte contemporanea richiede un bagaglio di interessi e conoscenze molto più forte. Sono sicura che il pubblico selezioni ciò che gli interessa. Ecco: non penso a un pubblico disorientato. L’importante è metterlo in condizione di scegliere nel miglior modo possibile. E poi: Venezia resterà sempre un luogo di eccezionale offerta culturale.
Cambiamo discorso. Nel 2011 lascia il Mart per prendere la guida dei MuVe: in cosa si assomigliano e in cosa differiscono?
La prima differenza è la quantità di opere e sedi da gestire: il Mart ha tre sedi, i MuVe undici. Per il resto, l’approccio è identico: ho impostato il programma e la progettazione seguendo i miei metodi classici. A Venezia ho dovuto ampliare le mie conoscenze, perché ho avuto a che fare anche con i musei del merletto, del vetro, del costume. Posso dire che mi sono avvalsa delle ottime professionalità che ho trovato in eredità. Rispetto alla vecchia gestione, abbiamo incrementato il numero di mostre e abbiamo già completato il secondo anno di esposizioni.
A livello di staff, invece?
Ho utilizzato al meglio tutto il personale che ho trovato. Non abbiamo fatto nessun nuovo inserimento. Ho cercato di motivare il personale, già molto competente. Da questo punto di vista, sono stata fortunata.
Parliamo di economia e gestione: budget e finanziamenti?
Siamo l’unico esempio in Europa che vive del proprio. Mi spiego: non abbiamo alcun finanziamento pubblico, viviamo del ticketing e della vendita di servizi. E ovviamente possiamo contare su un alto numero di pubblico.
Diamo i numeri.
Ogni anno entrano 18-19 milioni di euro. C’è da calcolare, però, che con queste cifre dobbiamo mantenere 700mila opere, 11 musei e circa 500 dipendenti. E con questo budget non siamo in grado a fare grande esposizioni. È per questo motivo che dobbiamo interpellare dei coproduttori, così come è avvenuto per Manet. Da questo punto di vista, l’unica novità che ho inserito sono gli sponsor che sostengono parte dei costi.
Come può vivere, anzi sopravvivere, il piccolo museo pubblico in un Paese che investe l’1,1% della spesa pubblica in cultura?
È difficilissimo e ci sono grosse problematiche. Il Governo dovrebbe inserire la cultura nei piani di sviluppo. C’è bisogno di un ministro con più forze, magari collegando più poteri e diversi dicasteri. L’azione non può venire dal singolo museo civico, ma dall’alto. La cultura è rimasta l’unica vera fonte di reddito e, finché non avremo un Governo che mette almeno al terzo posto il recupero e la rivalorizzazione di tutto il nostro patrimonio artistico, è difficile pensare a un futuro roseo.
Nel 2012 il Louvre ha guadagnato il 25% in più di tutti i musei pubblici italiani messi insieme. E non solo: gli italiani sono tra i primi visitatori.
Intanto conta la qualità dell’offerta. E poi l’italiano viaggia molto ed è fra i primi per il turismo culturale. Siamo utenti straordinari, ma abbiamo poca attitudine a vedere i nostri musei, perché manca l’educazione. Nelle scuole primarie e secondarie lo studio di storia dell’arte è pari a un’ora a settimana.
Torniamo ai MuVe: come sono i rapporti con i musei esteri?
Ottimi. Adesso stiamo incrociando una serie di iniziative. Abbiamo collaborazioni in programma con la National Gallery di Washington, con il Philadelphia Museum of Art, con il Guggenheim, con il Metropolitan di New York, con il Moca di Los Angeles e con L’Orsay di Parigi [partner nella mostra di Manet, N.d.R.]. Sono lavori strutturati che non si limitano alla semplice richiesta di prestito.
Cosa ne pensa del privato in campo artistico?
È una bellissima cosa, ma solo con regole chiare e certe che tutelino il patrimonio e l’ente pubblico. Il patrimonio deve rimanere pubblico, non può essere privatizzato. Posso dunque dirmi favorevole all’ingresso del privato all’interno delle strutture culturali.
Congediamoci con una domanda sul futuro: mostre in programma? Anticipazioni?
Faremo una mostra molto bella in autunno prossimo a Ca’ Pesaro: Venezia-New York, Biennale 1912-Armory Show 1913. È nata con la voglia di rispondere alla domanda: che cosa passa del gusto della Biennale nella grande Armory Show?
E per il 2015?
È lontano, ma ci stiamo già lavorando.
Paolo Marella
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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