Viaggio al centro dell’immagine. Gioni racconta la sua Biennale
Non una mostra d’arte ma di “cultura visiva”. Così Massimiliano Gioni descrive la sua Biennale, un progetto che affronta il tema dell’immaginazione e riporta in primo piano l’interiorità dell’artista e la sua capacità di produrre storie, forme, universi. Una Biennale che vuole somigliare più a un museo che a una fiera. Artribune ha intervistato l’ideatore del “Palazzo Enciclopedico”, che aprirà al pubblico il 1° giugno.
Come sei venuto a conoscenza dell’opera di Marino Auriti, che dà il nome alla tua Biennale?
L’opera di Auriti, il Palazzo Enciclopedico, è conservata al Folk Art Museum di New York, uno dei miei musei preferiti. È un luogo che ha avuto un percorso un po’ travagliato: una volta si trovava accanto al MoMA, ma poi ha dovuto chiudere per mancanza di fondi e ora è vicino a Lincoln Center. Si tratta di uno dei luoghi più interessanti per la raccolta di opere d’arte di outsider e autodidatti. Già da tempo includo nelle mie mostre figure un po’ eccentriche e il Folk Art Museum è un posto che mi ha sempre affascinato.
Il tema della tua mostra presenta, almeno sulla carta, alcune suggestioni in comune con il Fare Mondi di Birnbaum. In che modo ci somiglia e in cosa si differenzia?
Credo ci siano abbastanza elementi di netta discontinuità con il mio progetto. Il primo, più ovvio, è lo spettro storico del Palazzo Enciclopedico. Non è una storia intesa come cronologia, ma abbraccia molto più tempo. Quando ho iniziato a lavorare alla mostra, ho pensato che l’opera più “vecchia” sarebbe stata il Libro Rosso di Carl Gustav Jung, ma in realtà ci sono anche opere di inizio Novecento e qualche scampolo di fine Ottocento.
Daniel è un amico e per lui ho molto rispetto, ma mi sembra che il nostro lavoro sia molto diverso. Paradossalmente, anche se sono di una generazione di curatori che viene dopo quella di Bonami, di Obrist (che è poco più vecchio di me) e di Birnbaum, e anche se mi sono formato alla loro scuola, la Biennale a cui forse si può più avvicinare la mia è piuttosto quella di Jean Clair del 1995, se non altro nell’idea di costruire una mostra “storiografica”, all’interno della quale vengono ospitati oggetti di varo tipo e non solo opere d’arte. Questa era stata la grande novità della mostra di Clair, ma stranamente è stata la meno recepita, e tutti ormai pensano a lui come a un conservatore.
La Biennale di Venezia è stata per molto tempo il luogo dove presentare “il nuovo”. Da qualche anno, invece, e nel tuo progetto questa tendenza si delinea in maniera ancora più decisa, abbiamo visto mostre più riepilogative, didattiche, che cercano di stabilire connessioni tra epoche diverse e modi di fare arte anche lontani nel tempo. Qual è secondo te il ruolo della Biennale oggi?
Il paradigma della Biennale come luogo del “nuovo”, quel tipo di Biennale che Peter Schjeldahl, il critico del New Yorker, ha battezzato criticamente come “festivalismo”, corrisponde a un momento storico preciso. Emerge negli Anni Novanta e prosegue anche durante questo inizio secolo, ma è soltanto una fase. Se ripensiamo alle Biennali degli Anni Settanta e Ottanta, notiamo che c’erano spesso retrospettive e materiali storici. La prima Biennale di Germano Celant, Ambiente Arte, del 1976, è una mostra che guarda alla tradizione dell’ambiente, partendo da Man Ray ed El Lissitsky fino ad arrivare all’arte di ambiente californiana. C’era un’idea di storia e di sincronia molto più stratificata e ricca. Questo elemento si è poi perso e abbiamo visto emergere l’idea della Biennale come luogo della novità.
Non posso e non voglio fare il fustigatore del mercato, però credo che il risultato di questa tendenza abbia portato a una distorsione. Si è creata una situazione per cui è molto facile fare una mostra di artisti giovani, mentre è difficile trovare risorse per prendere in prestito una determinata opera invece che un’altra. Ho scelto di fare una mostra come il Palazzo Enciclopedico anche per oppormi a un certo tipo di pratica curatoriale, che considero esaurita. La Biennale, insomma, non deve somigliare ad Unlimited [sezione di grandi installazioni della fiera Art Basel, N.d.R]. L’altro giorno parlavo con Francesco Bonami e lui mi diceva: la tua è un’anti-biennale, perché somiglia più a un museo, e in un certo senso ha ragione.
Nella tua Biennale c’è un’alta percentuale di artisti già deceduti…
Io dico sempre che l’arte, quando è buona, non va a male.
La questione del sovraccarico di immagini (quello che tu stesso hai definito “diluvio dell’informazione”) è una realtà con cui ogni artista contemporaneo deve confrontarsi. Quali sono le strategie che vedi adottare? Quali le modalità di reazione al nuovo ecosistema delle immagini?
Una delle strategie consiste nel chiudere gli occhi. È una metafora che sarà simboleggiata dalla presenza della maschera di Breton, un calco del suo volto a occhi chiusi. Si tratta, se vuoi, di un tentativo di difesa, ma quando chiudi gli occhi al mondo finisci per vedere che c’è tantissimo già dentro di te. Potrà sembrare un’ovvietà, ma ogni individuo produce milioni di immagini già all’interno della propria testa, e la mostra ci ricorda che questo succedeva anche prima che diventassimo una cultura così massicciamente iconografica. Un’altra strategia è quella adottata, ad esempio, da Tino Seghal: niente più riproduzioni. Si sceglie di non aggiungere oggetti al mondo. Susan Sontag la chiamava “ecologia delle immagini”.
Il percorso della tua mostra si conclude con Walter De Maria, che presenterà un’opera monumentale ma minimale, un’immagine di un’essenzialità estrema.
Walter De Maria è stato uno dei primi a cui ho scritto, è un artista che fa pochissime mostre. Per un anno ci siamo inviati lettere, ma mi ha finalmente ammesso al suo cospetto solo due settimane fa. Quando sono andato da lui, mi ha fatto vedere il suo studio: un cubo perfetto 20×20 m, che a volte resta vuoto per anni mentre lui pensa, lavora, calcola, per arrivare magari ad allineare venti tubi di ottone. Per concepire quei tubi c’è bisogno però di un lungo processo di “rallentamento” dell’immagine che è estremamente interessante.
C’è anche la volontà di rifiutare l’idea che l’arte sia necessariamente fatta di immagini forti o scioccanti?
Sì, e in un questo senso la mostra va contro me stesso. È una mostra che ha anche qualche momento di teatralità, ma più attraverso l’accumulo che attraverso il “botto”. Sono curioso di vedere l’effetto che farà.
Cosa intendi per “accumulo”?
È una mostra fatta di tantissimi oggetti individuali. Oggetti discreti messi uno vicino all’altro. Di Yüksel Arslan, ad esempio, presentiamo cinquanta disegni; di Rudolf Steiner ne abbiamo quaranta. Ci sono grandi accumuli di oggetti singoli, e se vuoi anche simili. Sia che si tratti di artisti professionisti che di outsider, si può notare una certa “coazione a ripetere”.
Nella tua mostra ci saranno anche artisti non professionisti. Questo interesse recente per l’arte degli “irregolari” somiglia un po’ al primitivismo del primo Novecento. Cosa attrae negli amatori? Forse la loro “purezza”?
È vero che stiamo assistendo all’emergere di un certo feticismo dell’outsider, accompagnato da questo mito del “puro”. È una scelta che in un certo senso pulisce anche la coscienza al curatore, mettendolo al riparo da sospetti di mercantilismo. Questo però, secondo me, è l’aspetto più kitsch e più pericoloso, e cerco di evitarlo. La questione è tuttavia molto delicata. Mi sono interrogato a lungo sul tema nel progettare questa mostra, ma anche in passato; questo elemento c’era infatti anche nella Biennale di Gwangju e nella mostra che ho fatto l’anno scorso al New Museum, A Ghost in the Machine.
Quello che cerco di fare, e ci ho messo un po’ a capire come farlo in maniera sistematica, è costruire mostre che non siano solo d’arte, ma di “cultura visiva”. In questo modo, se nella stessa esposizione hai Charles Ray e Morton Bartlett, non hai più il problema di determinare quale dei due è un artista e quale è “assimilato”. Allargando il quadro, in un certo senso anche Charles Ray diventa “sintomo” di una determinata temperie culturale. L’opera è allo stesso tempo opera d’arte e “reliquia” di una storia esistenziale. Il tutto viene collocato su un piano di riflessione sull’immagine e ci si sbarazza anche del problema del capolavoro. A me in fondo non interessa che tutte le opere esposte siano capolavori, mi interessa che chi visita la mostra possa riconoscere i diversi modi di confrontarsi con la produzione e il consumo di immagini.
In che senso l’opera d’arte è un sintomo?
Quando si visita il Metropolitan Museum, ci si confronta con una concezione di arte molto più ampia, una concezione che vede l’arte integrata nella cultura, anche in quella materiale. Succede così dai vasi greci fino all’Ottocento. Quando arriva il Novecento, e in particolare l’arte contemporanea, invece, nelle sale troviamo solo i quadri dei grandi maestri. Quadri bellissimi, ma in cui l’opera finisce per esaurirsi in una replica di se stessa. Lo spettatore vede Warhol e pensa: “Che bello!”. Ma Warhol non è bello in se stesso, è interessante perché testimonia un certo modo di consumare, percepire e distribuire le immagini. Se viene isolato non ha più senso, se non nella semplice meraviglia di dire “che bello!” o, peggio, il suo valore rischia di diventare esclusivamente quello economico. Con questo tipo di mostra vorrei, da una parte, uscire dalle equazioni capolavoro-tautologia di se stesso e capolavoro-mercato; dall’altra, illustrare i tanti modi diversi di abitare la società dell’immagine.
Ci sono altri curatori, della tua generazione o più giovani, che portano avanti un lavoro simile al tuo su questi temi?
Prima lo si faceva in modo diverso, perché c’erano altri problemi. Mi è capitato di recente di parlarne con Hans-Ulrich Obrist. Gran parte delle sue mostre, ad esempio, sono “ricettari” (nel senso alto del termine), sono formule: la mostra in cui porti via tutto, o la mostra di partecipazione. Era un modo, non so nemmeno se conscio, di sgretolare l’idea dell’artista Anni Ottanta, del grande pittore con il grande ego. Si trattava di progetti più operativi, immateriali, che guardavano all’arte degli Anni Sessanta. Ma penso che esistano momenti di rottura generazionale.
In questo momento mi chiedo se magari questa mostra sembrerà arrivare in ritardo; molti osservatori, ad esempio, ci hanno visto delle similitudini con l’ultima edizione di Documenta. Ma anche se a qualcuno potrà sembrare che arrivi dopo, questa Biennale è frutto di un lavoro che faccio da una decina d’anni almeno. Nelle mie mostre spesso l’opera d’arte è traccia di una storia, che si tratti di Ryan Trecartin o di Friedrich Schröder-Sonnenstern, le opere vengono inserite all’interno di un misto esistenziale di racconti, storie e modi.
Hai risposto citando solo Obrist…
Un altro curatore che lavora molto su strategie museali è Jens Hoffman.
Non è molto diffuso, quindi, questo tipo di approccio?
No, però è nell’aria, e il fatto che anche l’ultima Documenta avesse queste caratteristiche lo dimostra. Mi sono interrogato molto su questo: se fare una Biennale solo di possibilità e non di riflessione, ma io penso che (magari sono conservatore) quando lavori a una mostra che vedranno 500mila persone, non puoi pensare di proporre un percorso che non dica niente nel suo insieme. Io spero che la gente esca dalla mostra non soltanto dicendo “che bella quell’opera che ho fotografato con il telefonino”, ma anche pensando magari “perché ho in mano questo telefonino e cosa dice questo su me stesso”…
A proposito di telefonini, non pare ci sia molta tecnologia in mostra.
Ci saranno Ryan Trecartin, Stan VanDerBeek, Mark Leckey. Leckey, secondo me è, insieme a Trecartin, l’artista che meglio parla della condizione digitale. Nel caso di Trecartin la condizione digitale è sapere tutto, contemporaneamente, al volume massimo, e questo in un certo senso dissolve l’individuo in una sorta di fantasma. Quella di Leckey invece è una riflessione sull’ontologia dell’immagine nell’era digitale. Poi c’è anche Helen Marten, che è di una generazione successiva a Leckey. Mark ha influenzato molto una nuova scena inglese, composta appunto dalla Martens, da James Richards, da Ed Atkins, tutti artisti che riflettono sulla condizione digitale e che saranno presenti in mostra. Poi c’è Simon Denny, che in un certo senso porta anche più in là la riflessione che faceva Seth Price sulla distribuzione delle immagini.
Però non ci sono molte opere dove la tecnologia è presente come strumento.
Sì, è vero. Ma è un po’ come la politica: l’arte che parla esplicitamente di politica spesso si esaurisce in illustrazione. Allo stesso modo, l’opera che usa la tecnologia rischia di diventare obsoleta dopo pochissimo tempo. L’opera che parla della metafora della tecnologia, invece, è più interessante, e di quella ce n’è molta nella mostra.
Il Palazzo Enciclopedico può essere considerato una specie di “archeologia di Internet”. È una mostra che, per parlare di oggi, dell’eccesso di immagini, del diluvio informativo, va a ricercare le origini di tutto questo. E magari queste radici le trova in Steiner piuttosto che nell’arte digitale.
Parliamo dei padiglioni nazionali. Ce ne sono alcuni che sei ansioso di vedere o su cui hai avuto delle anteprime?
Ci sono molti coetanei e amici nei padiglioni nazionali: Anri Sala, Mark Manders, Jeremy Deller, James Campbell. Ho scelto di adottare due scelte un po’ faticose durante la selezione degli artisti: nessun artista che fa un padiglione nazionale sarà nella mia mostra, eccezion fatta per Baruchello. E ho scelto di non chiamare nessun artista che era nell’edizione precedente. Questa è stata la decisione più faticosa, perché molti compagni di strada e di visioni erano presenti nella scorsa edizione.
Non ci sono eccezioni?
Sì, c’è qualche piccola eccezione. Ci saranno Fischli e Weiss perché volevo omaggiare Weiss, e ci sarà Rosemarie Trockel perché è stata scelta da Cindy Sherman nella sezione curata da lei. E poi c’è Trisha Donnelly, che era presente nella scorsa edizione e abbiamo deciso di posizionare la stessa opera nello stesso punto. Ci piaceva l’idea di sfidare la convenzione per cui un’opera deve necessariamente “andare via” e non possa essere ancora lì due anni dopo. Per dimostrare che l’arte sfugge alle logiche dell’obsolescenza programmata.
Per tornare ai padiglioni nazionali, sono molto curioso di vedere Jeremy Deller e sono felice anche che ci sia il Libano con Akram Zaatari e il Kosovo con Petrit Halilaj.
Come descriveresti il tuo rapporto con il mercato?
Jean Clair, nel suo Inverno della cultura, racconta di Roger Caillois che va in Corea a visitare l’inaugurazione del museo di storia, negli Anni Cinquanta, e vede il pubblico che davanti a una statua del Buddha si inginocchia. Tale è la forza di quell’immagine che i visitatori, invece di vederla come opera d’arte, la vedono come oggetto sacro anche all’interno di un museo. Jean Clair commenta dicendo che sarebbe incredibile se si potesse fare l’equivalente di quell’esperienza oggi: andare a vedere una mostra e percepire il carattere sacrale delle opere.
Io non sono contro il mercato e non ho un atteggiamento luddista, perché bisogna essere anche pragmatici: la “professionalizzazione” dell’arte ci fa campare e ci dà un ruolo. Il problema sorge però se l’esperienza della mostra diventa chiedere il prezzo, sapere chi ha comprato una certa opera o sapere che la sua inclusione è determinata varie strategie. A me piacerebbe che il pubblico, anche professionista, vedesse la mostra con uno sguardo diverso. Non dico come il coreano che si inginocchia di fronte al Buddha, ma senza preoccuparsi della quotazione delle opere.
Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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