“Al fuoco dell’impegno”: estetica politica nel pop Anni Ottanta
Pensare agli Anni Ottanta – soprattutto agli esordi del decennio – come ad anni dominati solo dal glamour, dalla superficialità, dal look ci fa perdere un sacco di sfumature. La più importante di queste è l’impegno politico.
Cities, buildings, falling down
Ideal homes falling down
These pictures I see on the wall
Timeless leaders stand so tall
Assassin in a hit and run
Asia steals a new born son
Evacuees and refugees
Presidents and monarchies
Simple Minds, I Travel (1980)
There’s a new game
we like to play you see
a game with added reality
you treat me like a dog
get me down on my knees
we call it master and servant
Depeche Mode, Master and Servant (1984)
Molte delle produzioni culturali e musicali che appaiono all’inizio degli Anni Ottanta sono attraversate da un’aria Anni Venti e Trenta molto ben definibile. Come sempre accade, la spinta fondamentale di questo percorso va rintracciata alla fine degli Anni Settanta, quando sulla scorta del punk compaiono gruppi che esplicitamente si richiamano alle avanguardie storiche (Cabaret Voltaire, Pere Ubu). Presto questo discorso investe in pieno le procedure: per band come Art of Noise e Propaganda, è la musica stessa che viene costruita elettronicamente attraverso il montaggio e l’assemblaggio, come un collage dadaista.
Così, gli Human League già all’altezza del 1978, all’interno di un disco fondamentale come Reproduction, compongono una monumentale suite in quattro parti intitolata The dignity of labour: la “dignità del lavoro” è un tema che difficilmente saremmo portati ad associare ai nascenti Anni Ottanta, eppure in una delle opere che ne elaborano i tratti fondamentali – influenzando in profondità i ventenni che li svilupperanno da protagonisti – svolge un ruolo centrale.
Questo sentimento di alienazione da vecchia Europa che si fa metafora di un isolamento distopico perfettamente contemporaneo attraversa l’album che fa da vero spartiacque tra la fase più sperimentale e oscura del post-punk e quella apparentemente più euforica e luminosa: Empires and Dance (1980) dei Simple Minds. Le canzoni sono gemme squilibrate e nevrotiche, che disegnano uno scenario di città che crollano, aeroporti esistenziali e vita che sfugge al controllo. Quella dei Simple Minds è una dolce distopia colta esattamente al suo inizio, e trasfigurata in questo continuo richiamo a un’idea spettrale di totalitarismo che probabilmente è la chiave per accedere al decennio che avanza.
La storica copertina del primo album dei New Order istantaneamente risorti dalle ceneri dei Joy Division, Movement (1981), con quella straordinaria rielaborazione di motivi costruttivisti e l’esibizione del numero di catalogazione dell’“oggetto” (FACD. 50) al centro esatto di un’immagine che non è un’immagine, restituisce il senso di un’inversione che è l’argomento stesso dei brani: cantare un’assenza (Ian Curtis: Him) simulandola, riproducendola, e al tempo stesso cercare faticosamente un’identità smagliante, scavando in quelle radici oscure ed estraendone i frutti nuovi, dolorosi.
È poi questo il lavoro di elaborazione – del lutto, della sperimentazione, del disagio, della radicalità – che sta alla base delle opere più interessanti di questa partenza (e, tra l’altro, è esattamente ciò che manca in quasi tutte le produzioni italiane degli stessi anni, tranne rarissime eccezioni: Ranxerox, Il Male, Frigidaire, i Franti, Pier Vittorio Tondelli). È ciò che fa grandi, ad esempio, i primi dischi dei Depeche Mode: dopo l’esordio fulminante di Speak & Spell (1981), con A Broken Frame (1982) e ancor più con Construction Time Again (1983) si chiarisce molto bene qual è il punto. Sin dalle immagini – una contadina sovietica sotto un cielo tempestoso e un fabbro espressionista che scende dalle montagne brandendo un maglio – si delineano gli aspetti di questo “nuovo tempo della costruzione”: è come vedere i Pink Floyd abbandonare l’alienazione sottile e tutto sommato “privilegiata” di metà anni Settanta non per chiudere la parabola nella verbosità disperata di The Wall o nell’eleganza formale del post-Waters, ma per dotarsi di una struttura più potente, più meccanica e soprattutto più aggressiva. Ad essere aggredita è la realtà dei rapporti umani, sociali, economici all’altezza del decennio che inizia; quella che viene immortalata da brani come Everything counts: “It’s a competitive world”.
A catturare la qualità fantasmatica dell’impegno nei primi anni Ottanta sono però quegli Orchestral Manoeuvres in the Dark che erano stati autori nel 1980 di un brano (Enola Gay) che li ha incastrati nelle piste e nell’immaginario di innumerevoli feste liceali e brufolose replicate all’infinito, ma che apriva uno dei dischi più sperimentali e malinconici di sempre (Organisation). La cura per la perfezione formale e la fusione tra ricerca e melodia pop guidano anche il capolavoro del 1983, ovviamente quasi sperduto nelle nebbie delle antologie: Dazzle Ships. Il disco si ispira, fin dalla copertina, alle navi che durante la Prima Guerra Mondiale venivano camuffate con motivi astratti e geometrici, adatti a renderle paradossalmente invisibili. Tutte le canzoni applicano metodicamente questa distorsione della percezione, a partire dalla struggente Radio Prague, il breve brano strumentale che apre l’album: un’onda di interferenze e di rifrazioni elettroniche ci restituisce suoni e voci da un altro mondo. Nel mondo socialista, oltre la Cortina di Ferro, una realtà che Radio Prague ci lascia immaginare al tempo stesso gelida e assolata, si trovano i gioielli che gli OMD stanno cercando da anni. E attraverso questa interpretazione si fanno raccogliere e comporre in un nuovo quadro.
Christian Caliandro
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