Lo incontriamo all’Università di Salerno, introdotto, nell’aula rabbuiata per la proiezione dei Powerpoint, dalle luminose parole di Maria Passaro. “Antonio Rava, un angelo custode dell’arte contemporanea.” Classe 1952, diploma all’Istituto Centrale del Restauro, specializzazione al Dipartimento di Conservazione dell’Institute of Fine Arts della New York University.
Ha anche una laurea in Architettura, ma critica gli architetti che restaurano: “Troppo spesso non partono da un approfondimento culturale sufficiente, ad ampio raggio, utilizzando materiali non coerenti con quelli originari. Come nota Zorio, nessuno restaurerebbe la carrozzeria di un’automobile utilizzando tavolozza e colori a olio! Bisogna sempre lavorare in maniera conseguente alla produzione dell’oggetto”.
Negli anni Rava si è occupato delle opere e dei manufatti più disparati, mosaici di Prampolini e Depero, murales di Keith Haring, oggetti plastici del Museo del Cinema di Torino, la Superficie Lunare di Giulio Turcato, grande opera in gommapiuma lacerata e senza più consistenza per la quale si era persa ogni speranza, tanto da essere cancellata dai registri delle opere della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
“Ma non è detto che la morte dell’oggetto sia un esito scontato”, e colpisce la visione tranquilla e rasserenante di Rava, mentre la teoria del restauro pare sfilacciarsi nelle maglie del sistema del pop e per l’endemica carenza di risorse molti monumenti cadono a pezzi o vengono sviliti da restauri ignoranti. Anche quando si parla di Pompei, dei soldi buttati e delle case crollate, Rava non si scompone più di tanto: “Uno dei casi più drammatici italiani, abbiamo tante rimostranze e tante speranze”. Come a dire: rimbocchiamoci le maniche, inutile piangere sull’arte versata.
Molte opere odierne, nel rispecchiare la natura effimera di una società usa-e-getta, pongono già un grosso problema: è più giusto che l’opera viva la sua precarietà oppure deve essere salvata dal proprio tempo?
C’è un’istanza fondamentale che è il non accanimento terapeutico: quello che abbiamo sentito nei recenti dibattiti sulla vita umana vale anche per l’opera d’arte. Se deve invecchiare per ottemperare alle esigenze espressive dell’artista, è necessario lasciare che il corso degli avvenimenti porti alle estreme conseguenze. Ci sono artisti come Joseph Beuys che si sono espressi in vita su questo aspetto, accettando il degrado dei loro manufatti e facendo delle critiche quando sono state fatte indebite operazioni conservative, perché per loro l’irrancidimento, lo sgretolamento, la polverizzazione del materiale fa parte del percorso corretto dell’opera. In questi casi è giusto quanto affermato da Bonito Oliva: seppellite le opere con gli artisti che le hanno create.
Se però non possiamo agire sul corpo dell’opera, possiamo farlo sull’ambiente, e questo è un aspetto molto importante. Possiamo ridurre gli sbalzi di temperature e l’umidità, l’illuminazione e l’ossigeno, ossia possiamo creare tutta una serie di fattori che non toccano l’opera ma che impediscono l’accelerazione del processo di disgregazione. E questo è lecito. Alcuni artisti come Pistoletto si sono espressi dicendo che è sempre brutto mettere qualcosa in vitro, ma quando è necessario va fatto. Come diceva Cesare Brandi, “primum vivere”: non è detto che la morte dell’oggetto sia un esito scontato. Non è detto che tutto debba avvenire seduta stante e le opere sparire dalla circolazione e dalla fruizione delle generazioni future, rimanendo soltanto come immagine.
Lei si è occupato di restauri di murales di Keith Haring. A proposito di murales, è possibile che, come l’artista tradizionale programmava la patina, lo street artist preveda, accetti o addirittura desideri per le sue opere l’annerimento tipico della città?
Per Keith Haring lo escludo. L’artista si è espresso in maniera possibilista rispetto alla ridipintura dicendo: “Questi sono i colori che ho usato”, fornendo la dicitura tecnica per poterli riproporre in caso di necessità. L’attuale direttrice della Fondazione Keith Haring, che è stata molto vicina all’artista, chiarisce inoltre come le opere pubbliche fossero opere-manifesto, destinate a un’ampia fruizione (ad esempio Crack is wack contro l’uso di una droga particolarmente distruttiva per i giovani della sua generazione) e quindi assolutamente bisognose di leggibilità.
Lei però, da buon restauratore italiano, ha cercato di evitare la ridipintura e salvare il salvabile dei colori originali…
È vero. Ho cercato di spiegare le varie possibilità di pulire piuttosto che ridipingere, proprio perché noi abbiamo questa forte tradizione che c’impedisce di coprire ciò che stato fatto originariamente dall’artista, ma lo vogliamo vedere proprio di mano sua. Per cui il ritocco, se c’è, dev’essere limitato e riconoscibile.
Invece la Fondazione Haring è per le ridipinture?
La Fondazione aveva quest’ordine d’idee di fronte al pericolo di mantenere le opere in uno stato rovinoso. “Se non ha più una valenza espressiva, non è più un’opera di Haring”, dicevano, e su questo sono d’accordo: le nostre problematiche sulla materia e sull’originalità vengono dopo le ragioni e il messaggio dell’artista. Si tratta di mediare un pochino, e ho constatato che il nostro approccio cauto e dubitoso piace, influenzando in qualche modo anche le ricerche di questi organismi internazionali. Per esempio, la Fondazione Haring è stata contentissima quando ho trovato il giallo originale del murale di Melbourne, che sembrava sparito del tutto.
È giusto dire che l’opera contemporanea, segnatamente il murale, si trova in un limbo tra antiche e collaudate tecniche di esecuzione – basti citare l’affresco – rifiutate perché ritenute anacronistiche e premure conservative possibili con tecnologie e materiali odierni che però sembrano non interessare agli artisti?
Sì, sulla conservazione gli artisti contemporanei sono in genere glissanti, disinteressati quasi. Molti artisti intervistati ci hanno detto: “È un problema vostro, noi ci siamo limitati a fare la nostra proposta artistica…”. Io accetto pienamente questa sfida, perché fa parte del mio compito far durare qualsiasi cosa.
Lei ha parlato di una sorta di bestemmia tecnica, l’accoppiamento contro natura di intonaco e colori acrilici.
Così lei drammatizza… [Sorride, N.d.R.] In realtà sono due materiali incompatibili, che si comportano in maniera differente rispetto all’ambiente e, in particolare, all’acqua. Ma anche questa incompatibilità può essere aiutata a trovare un raccordo. Certo, nell’affresco tradizionale questo problema non si poneva, la compatibilità era somma. L’intonaco conteneva la parte pittorica al suo interno, non c’era una pellicola pittorica di tipo differente che poteva dilaminarsi…
Anche nel restauro dell’arte contemporanea, la precoce e incisiva teoria del restauro italiana ha il suo peso. Possibile anzi che sia più rispettata nel restauro dell’arte contemporanea che in quello di opere antiche?
È molto rispettata ovunque. Ma dobbiamo ricordare che la teoria brandiana è nata negli Anni Cinquanta, nel contesto di ricostruzione post-bellica, quando i rischi di abusi erano molto frequenti. Brandi dovette lavorare a una normativa il più possibile chiarificante, pur essendo molto difficile regolare tutto in un modo univoco. In alcuni casi quindi siamo in presenza di esercizi teorici che hanno scarso riscontro con la realtà. Ad esempio, il criterio di reversibilità non ha alcun senso applicato ai consolidamenti, essendo un po’ una contraddizione di termini. Se un’opera era in cattive condizioni prima di averla consolidata, togliere questo consolidante significa ridurla in briciole.
Ciò non toglie che anche nell’arte contemporanea la Teoria del restauro abbia una funzione di “rete di sicurezza” (Marina Pugliese), ovvero una base interpretativa attraverso cui non cadere in errori macroscopici. Brandi ti aiuta a pensare, e prima di ogni restauro pensare è fondamentale.
Bruno Zanardi sostiene che vi sia una crisi metodologica del restauro e punta il dito su alcuni sistemi di fruizione che stanno mettendo a rischio le opere. Ad esempio, i dipinti di Caravaggio sono restaurati a getto continuo perché devono “andare in mostra”… Anche il criterio del minimo intervento ha fatto il suo tempo?
Lei parla della moratoria proposta da Settis e Zanardi per evitare di restaurare sempre le stesse opere. Moratoria a cui mi sono opposto perché faceva di tutta l’erba un fascio, rischiando di mettere in mora e far chiudere imprese d’eccellenza. La perdita di queste imprese sopravvissute ad anni difficili sarebbe molto grave per l’Italia perché la tradizione passa attraverso le imprese, trasmettendo il messaggio del restauro made in Italy al mondo. Quindi prima di tutto salviamo le imprese, poi pensiamo a una rarefazione degli interventi.
Alessandro Paolo Lombardo
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati