Bella come un Tumblr. La Biennale secondo Riccardo Conti
Come scrisse Truman Capote nel 1961, “Venezia è come mangiare un’intera scatola di cioccolatini al liquore in una volta sola”. La stessa sensazione di ingordigia nauseabonda può essere estesa alla Biennale (a ogni Biennale) dove c’è tanto, dove c’è troppo di tutto.
Se vent’anni fa i Paesi rappresentati alla Biennale di Venezia erano 53, quest’anno le nazioni invitate a rappresentare lo stato dell’arte contemporanea nel mondo sono ben 88, con il debutto di Paesi quali Angola, Bahamas, Bahrain, Costa d’Avorio, Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay, Tuvalu e persino il Vaticano, che sbarca in Laguna con un padiglione in totale continuità con l’operazione di marketing-comunicazionale dell’era Bergoglio.
Se tale è l’ipertrofia dei numeri, delle sedi, degli artisti invitati (158, il doppio della precedente Biennale) appare allora sensato e in un certo senso scontato proporre un tema-contenitore come Il Palazzo Enciclopedico.
Tale indicizzazione dei saperi è, come si è letto in tanti ottimi commenti, un’arma a doppio taglio, poiché implica un confronto con la tradizione culturale che da sempre ha tentato l’organizzazione dello scibile, da Diderot a Wikipedia. C’è dunque qualcosa di coraggioso e insieme folle nel racconto abborracciato di Gioni; allora, non elencherò nuovamente tutti i ”santi” del sapere immaginifico e non evocherò l’ormai consunta formula della Wunderkammer, che peraltro non penso facciano realmente parte del côté culturale del curatore, così come non ritengo corretto l’accostamento di questa Biennale alla mostra di Jean Clair, del tutto dissimile nell’approccio metodologico. Non voglio nemmeno ponderare la legittimità o meno dei tanti irregolari, mistici e outsider messi in mostra, poiché anche chi solo superficialmente abbia frequentato i cultural studies e, nello specifico, l’eredità curatoriale di Harald Szeemann, troverà dal punto di vista intellettuale tale scelta legittima, anche se una superfetazione di qualcosa che aveva ben più senso negli Anni Sessanta di Foucault.
C’è però un aspetto che vale la pena di considerare in questo accrochage di opere di regolari e irregolari, e che può almeno in parte svelarne la logica e l’utilizzo: mai nessuna Biennale è stata fotografata, twittata, instagrammata e in generale condivisa sui social network quanto questa. Ecco, credo che uno studioso e un curatore serio dovranno nell’immediato analizzare e tener conto di tale fenomeno responsabilmente, chiedendosi senza tabù, ma con il rigore di una lucida analisi, in che modo il nuovo occhio dell’etereo spettatore, nel suo osservare l’oggetto-biennale, modifichi intimamente la realtà che rappresenta moltiplicandola all’infinito.
La promenade all’interno del Palazzo Enciclopedico non ha nulla della poesia de La Passeggiata di Palazzeschi, rievocata nel testo che Szeemann scrisse per la Biennale del 1999, ma tende più al contemporaneo “surfare libero” su vari immaginari, come su un Tumblr dove accanto a un’opera d’arte può accostarsi tranquillamente l’opera freak, la meraviglia bibliofila e l’oggetto hipster in una forma indisciplinata, annullando qualsiasi prospettiva storica ma suggerendo possibili e inattese letture attraverso analogie od omologie formali.
Molti commentatori hanno stigmatizzato l’eccessivo ricorso al cartongesso di Gioni per conferire agli storici spazi della Biennale quel “biancore operativo” proprio del display del contemporaneo: esso è invece la prova dell’esigenza di calare i vari reperti in un’interfaccia user-friendly dove le icone galleggiano e si offrono al visitatore come immagini ipertestuali e soggetti da fotografare, aiutati anche da una certa prominenza “figurativa” delle opere scelte.
Sorprende poi leggere dalla penna dei critici un certo sollievo per il numero contenutissimo di video presenti in questa Biennale: al contrario, sono forse le opere video quelle che paradossalmente, con la loro durata, seducono il visitatore portandolo a un’immersione più intensa. Penso ad esempio all’inferno di Ryan Trecartin, al montaggio di Camille Henrot, al video di Jesper Just, ma soprattutto allo splendido ritorno del subcosciente e onirico Heaven and Earth Magic del genio assoluto Harry Smith, il mago americano che peraltro millantava di essere figlio naturale di Aleister Crowley, figura la cui centralità meriterebbe un approfondimento a parte.
Davanti a una Biennale così, al netto di tanti giusti dubbi e interrogativi, vale la pena abbandonarsi al piacere ludico di una fruizione alimentata da seduzioni estetiche improvvise e corrispondenze emotive, e, perché no?, persino temporaneamente incoscienti e naïve, costruendosi proprio come in un Tumblr la propria Biennale. Forzando ancora un poco la metafora del social network, i miei “like” vanno all’installazione di Anri Sala, alla personale autarchica di Jeremy Deller, all’intelligente lavoro sull’apparente obsolescenza dei media di Miltos Manetas, al progetto ostinato di Linda Fregni Nagler, al viaggio del padiglione portoghese, ai disegnini pruriginosi di Evgeny Kozlov, all’altare polverizzato di Roger Hiorns e agli scatti di Edson Chagas.
E ancora, immagini sublimi come la monumentalità del deforme e del politically correct di Marc Quinn, trionfale e insieme ambiguo se pensato nell’epoca post-Pistorius, per finire con Vladim Zakharov e l’attualizzazione del mito di Zeus e della pioggia dorata, qui proposta come pioggia di monete d’oro. Un’immagine quest’ultima che fortemente entra in risonanza col presente e che forse Jung avrebbe potuto aiutarci a meglio decodificare.
Esaurito il gioco, resta comunque aperta e fondamentale la citazione di Lacan, ripresa da un’opera in mostra: “All art, and all thought, is ruined when we accept this permission to consume, to communicate and enjoy”.
Riccardo Conti
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