Bianco-Valente e il viaggio “nel” Libano
Loro sono artisti nomadi, sia letteralmente che metaforicamente. E li si incasella con difficoltà in circoli e sistemi. Ora hanno avviato un progetto di scambio e interazione. Di quelli reali. Ci siamo fatti raccontare l’esperienza libanese, tanto per iniziare.
“I luoghi canonici deputati all’arte tendono a essere noiosi, si fanno sempre gli stessi discorsi, citando gli stessi nomi che propongono lo stesso lavoro. La vita può invece offrire uno spettro di emozioni molto più ampio e basta aprire un piccolo spiraglio per essere inondati dalla sua luce”. E la loro illuminazione, Bianco-Valente (Giovanna Bianco, Latronico, 1962; Pino Valente Napoli, 1967; vivono a Napoli), la vanno a ricercare in prima persona, aprendo sempre più spesso spiragli verso panorami inesplorati, culture vivide, sensibilità autentiche e spesso primigenie. Per loro il viaggio è una vocazione: ma l’approdo a una realtà nuova non lo interpretano come un “saccheggio” di ispirazione. Loro cercano la sintonia profonda con il paesaggio, con la popolazione, con la sua storia, una sintonia costruita anche su gesti semplici e antichissimi, sul quotidiano, sull’usuale.
Reduci da una full immersion marocchina, ora si buttano su un progetto che rappresenta un po’ la sublimazione di queste premesse: tre luoghi distantissimi – geograficamente, ma soprattutto socialmente e culturalmente -, tre coppie di artisti che si scambiano “visite” creative. Hanno iniziato loro, andando in Medio Oriente a lavorare con due artisti libanesi; il prossimo step – il primo sopralluogo c’è già stato – vedrà una coppia di creativi della Repubblica Ceca arrivare in Italia, nel Cilento.
Libano, Italia, Repubblica Ceca. Come nasce questo mix inedito fra Medio Oriente ed Europa Centrale, con l’Italia a fare da snodo ideale?
A Place for Action nasce da un’idea di Katia Baraldi, Laure Keyrouz e Andrea Stomeo, i fondatori di Front of Art. L’idea di base è organizzare eventi di arte contemporanea in piccoli centri periferici di diverse nazioni, intessendo un dialogo fra gli artisti invitati in residenza. Oltre a noi, per questa tappa del progetto sono stati invitati anche gli artisti libanesi Pascal Hachem e Rana Haddad.
Dopo il Marocco, il Libano. Sempre più spesso vi trovate a lavorare in regioni di confine, ma animate da grandi energie creative…
La realtà libanese è incredibile, c’è una grande energia, e ogni aspetto della vita quotidiana ti racconta di quanto questo Paese sia lo snodo cruciale di tutto il Medio Oriente e il suo sbocco naturale verso gli altri Paesi del Mediterraneo: la musica e la cucina, ad esempio, sono due eccellenze libanesi, un mix unico che include l’influenza delle varie culture che nei secoli hanno dominato o semplicemente attraversato la regione. Purtroppo anche i conflitti e le tensioni che tanto hanno caratterizzato la storia del Libano sono la diretta conseguenza degli attriti geo-politici e religiosi delle nazioni confinanti, che sembrano aver trovato la loro naturale valvola di sfogo in questo Paese.
In realtà, la vostra attenzione va più alla popolazione, il vostro “medium” sono gli abitanti. Che realtà avete trovato in questa nuova esperienza?
Becharre è una piccola cittadina del nord del Libano in cui quasi tutti gli abitanti sono di fede cristiano-maronita, il Paese è immerso nella natura e domina la Qadisha Valley (Valle Sacra), che scende a picco per quasi 800 metri, le cui grotte nell’antichità sono state rifugio e poi chiese e monasteri rupestri dei primi profughi cristiano maroniti arrivati dalla Siria.
Due elementi fortemente contrastanti ci hanno colpito della cittadina: la grande varietà e la bellezza della natura e l’alterazione del paesaggio dovuta all’uso massiccio del cemento, costruzioni moderne spesso lasciate incompiute, veri e propri mostri che stridevano con l’ambiente circostante e con le tipiche costruzioni in pietra ancora visibili che molto meglio si integravano con il paesaggio. Abbiamo voluto incontrare alcune persone del posto per farci raccontare la propria storia, in particolare ai più anziani abbiamo chiesto quanto fosse cambiata Besharre e quale aspetto avrebbero voluto riportare in vita dal passato. Ai più giovani abbiamo invece chiesto dei loro desideri e delle paure rispetto al futuro. Nei racconti degli anziani veniva descritta l’importanza e la forza delle relazioni umane, affievolitesi nel tempo, e un paesaggio di case costruite in pietra andate quasi completamente distrutte per fare spazio alla modernità, con nuove case fatte di cemento; nei racconti dei giovani emergeva una grande voglia di fare e un attaccamento fortissimo alla propria terra.
La paura della guerra non era palese ma si intuiva come un’angoscia inconfessabile, un grosso ingombro dentro ognuno. Da queste conversazioni private abbiamo deciso di estrapolare alcune frasi, emblematiche, poetiche, alcune riguardanti la memoria collettiva, e donarle a tutta la gente, trascrivendole sui muri di cemento, disseminandole in tutta la cittadina, dal centro alla periferia.
Il vostro progetto entrava nel profondo dell’individuo, toccando anche delicate sfere socio-politiche. Qual è stata la risposta dei vostri interlocutori?
Trovarsi in una cittadina al confine con un Paese in guerra ti faceva percepire un apparente stato di calma, almeno fra le persone a noi più vicine, ma appena avevi modo di parlare con altre persone capivi la profonda preoccupazione che quella guerra potesse sconfinare. Nelle chiacchierate fatte con le tante persone incontrate, anziani e giovani, questo era uno degli argomenti più delicati e che si affrontava con un certo imbarazzo. C’è stata grande attenzione nell’estrapolare da queste conversazioni frasi che non avessero un riferimento a questo tema.
Con il sindaco di Becharre, persona squisita e di grande cultura, abbiamo lavorato soprattutto per quanto concerne la conversione delle frasi dalla lingua parlata a quella scritta, assistiti in questo anche da Laure Keyrouz. Ci ha molto sorpreso la partecipazione e il grande entusiasmo dei ragazzi che ci hanno aiutato fisicamente a realizzare il lavoro, molti di loro si sono aggiunti strada facendo, passando in pochi minuti da spettatori ad attori. Anche gli abitanti ci sono stati molto vicini, e mentre all’inizio sembrava che non fosse possibile trovare un muro privato su cui avere l’autorizzazione a scrivere, alla fine erano le persone a chiederci di scrivere una frase sul muro della propria casa! È stata un’esperienza di vita e di lavoro bellissima.
Formalmente avete incontrato modalità identitarie e dalla tradizione antichissima come la calligrafia.
Abbiamo scoperto che ogni comunità libanese ha almeno un calligrafo che si occupa di redigere gli striscioni con gli avvisi pubblici alla popolazione da parte della municipalità o dei privati, una tradizione bellissima che ovviamente abbiamo voluto integrare nel nostro progetto.
Quali saranno gli sviluppi futuri del progetto?
Come il vento è un titolo “collettivo” che ci piace dare ai progetti che si sviluppano a partire dai racconti delle persone. L’uomo si è spostato sulla terra proprio come il vento, diffondendo la propria lingua e le proprie idee che si sono via via mischiate con quelle degli altri uomini, e tutto questo è avvenuto principalmente raccontando la propria storia. Pur trasformandosi passando di bocca in bocca, le storie tendono a resistere al tempo molto più che i monumenti, e in più sono il vero tramite che tiene legati i gruppi sociali, molto più che le bandiere o i muri di cinta.
Massimo Mattioli
http://www.bianco-valente.com/
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