Ci vuole coraggio. La Biennale secondo Vincenzo De Bellis
“La visita al Palazzo Enciclopedico è stata per me un’esperienza in qualche modo rivelatoria sotto il profilo curatoriale: mi sta consentendo di rifare il punto sull’idea dello spazio espositivo, sul rapporto tra questo e le opere, oltre che sul significato del formato Biennale”. Parole del direttore artistico di MiArt e confondatore di Peep-Hole, Vincenzo De Bellis. Oggi è lui a raccontare ai lettori di Artribune la propria visione della Biennale di Venezia.
L’Arsenale soprattutto è stato affrontato da Massimiliano Gioni con grande coraggio e la considero una sfida vinta su tutti i piani, sia per l’allestimento che per la qualità delle opere. Mentre il pubblico delle Biennali del passato si muoveva in un flusso continuo guardando a destra e a sinistra come se le opere fossero solo una decorazione di uno spazio, Gioni ha impresso un ritmo all’insieme che porta il visitatore a “incontrare” i lavori, soddisfacendo in pieno quell’atto del guardare che è insito nell’idea stessa di una mostra d’arte.
La mostra rivela una progressione di temi e tipi che in alcuni tratti è entusiasmante. Quello che ne risulta nell’insieme è di certo un grande controllo, una regìa precisa e puntuale che magari per alcuni può essere letta come un certo grado di freddezza, ma che invece è solo il frutto di scelte precise ed evidentemente molto ponderate per giungere necessariamente e consapevolmente a un determinato risultato.
L’eccezionalità dello spazio è stata “domata” da un progetto allestitivo davvero eccellente, che mai avevo visto in una Biennale d’arte e che invece spesso è utilizzato in quelle di architettura. Tutto questo mette in evidenza come oggi il format della Biennale (non solo quella di Venezia ma anche altre) sia ormai una mostra e non più altro.
Per questo l’idea di trasformare la Biennale in un museo, un museo enciclopedico ma sempre comunque solo ipotetico, è assolutamente perfetta da questo punto di vista e rompe forse per la prima volta quella consuetudine un po’ desueta nel 2013 secondo cui la Biennale è il luogo dove vedere “i futuri grandi artisti” dei prossimi anni.
Non è più così, le Biennali non sono più quel luogo, perché quel luogo è altrove. Qualcuno lo doveva dire per primo e lui l’ha fatto.
Credo che per tutti questi aspetti la Biennale di Massimiliano Gioni possa segnare un momento cruciale della storia della curatela e dell’exhibition making. Se esistesse la possibilità di scommettere, io scommetterei che moltissime delle cose che lui ha messo in luce, dal rapporto con gli artisti e con le opere all’allestimento, saranno seguite da altri e nei prossimi anni rappresenteranno una certa linea del “fare mostre” in luoghi istituzionali e non. Mi piacerebbe che ne riparlassimo tra qualche anno per vedere se è così.
Vorrei spendere due parole sul Padiglione Italia: partiamo dagli aspetti positivi, ovvero la scelta finalmente di riaffidare la curatela a un curatore proveniente da un’istituzione che lavora e presenta artisti di un certo calibro. Il tema del confronto generazionale lo sento molto vicino a me come è evidente dal lavoro che sto svolgendo in altri contesti, quindi anche su quello ho solo pensieri positivi. Gli aspetti meno positivi sono quelli a monte: ovvero l’imposizione da parte del ministero di un tema da sviluppare che ha portato tutti i curatori invitati a partecipare al concorso per il padiglione a presentare una mostra collettiva. Chi si è preso il tempo di leggerli tutti con un minimo di attenzione avrà notato come i paletti fossero molto stretti e limitanti.
Quindi tutti i curatori che ci si sono confrontati hanno fatto il loro meglio e di sicuro e a maggior ragione lo ha fatto Bartolomeo Pietromarchi, che ha messo su un padiglione coerente e di livello.
Io credo però che per il futuro serva un atto di coraggio, o meglio di quello che in questo Paese è letto come un atto di coraggio ma che in realtà è normalissimo in ogni altro Paese. Ogni due anni qualcuno deve scegliere un curatore/una curatrice che a sua volta dovrebbe scegliere uno-due (solo per la dimensione del padiglione) artisti che rappresentino, chiaramente secondo lui-lei, il meglio della nostra arte da presentare al mondo. Non ci piace? Pazienza, non è la fine del mondo. Magari quello successivo ci piacerà… D’altra parte non è così per tutti gli altri? Credo che il mio sia un sentimento comune a molti. Credo che per primi lo pensino gli artisti e credo che per primi lo si debba a loro. Poi, se vogliamo, anche a tutti gli altri.
Vincenzo De Bellis
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati