Fuoco amico. La Biennale secondo Andrea Bruciati
Un libro non è una mostra e una mostra non è una Biennale, tantomeno a Venezia. La proposta di Massimiliano Gioni è seducente, museograficamente impeccabile e rigorosa nei sussidi didascalici: affascinanti molte delle opere proposte e scelte, degne di un Museé de l’Homme e rispondenti al sogno di Auriti. Però…
Le ossessioni che Massimiliano Gioni ama fanno parte anche del mio background culturale e delle mie scelte curatoriali e pertanto non posso che plaudire all’impiego di tanti stimoli visivi del XX secolo e del profluvio di carte e di oggetti feticcio, dall’incontestabile charme. Quasi tributo a un grande studioso come Hans Belting, nello sguardo penetrante della psiche si intravede una veridicità ultima, dove reale e bello si uniscono, finalmente. Eppure assunti determinanti, ribaditi da Gioni, non vengono verificati lungo le due sedi che, soprattutto laddove l’archivio testuale necessita del contesto della pagina bianca (Arsenale), evidenzia palesi ambiguità sintattiche e una non indifferente dose di cinismo.
La prima questione è quella degli outsider, che francamente non rilevo: si parla di antropologia, di ossessioni e questo necessariamente non significa artista a mio avviso. Nulla di underground, off, tossico, virale, radicale, qualcosa di lontanamente “rischioso” in questa rassegna. Certo, il problema vero è se ha ancora un senso parlare di tutto questo, visto che il famoso sistema livella e omologa ogni cosa, ma allora non ci è più nemmeno concessa la libertà di ipotizzarlo? Ecco, nonostante l’operazione inequivocabilmente seduttoria di Gioni, siamo dinanzi a una Biennale reazionaria, che mi ricorda lo Jean Clair del 1995, lo storiografo di tanti linguaggi dei primi Anni Novanta. Per venire poi alla non autenticità delle scelte, vorrei ricordare l’operazione Alessandra Ariatti del 2003, una prova quasi embrionale, zonale, di questa biennale-outsider. Il ruolo del demiurgo mi sembra ora rispolverato e ulteriormente raffinato, con autori deceduti o già presenti in contesti museali, quindi molto meno pericolosi per la responsabilità che la scelta di curatore implica. A mio avviso un professionista, al di la della necessaria competenza critica, dovrebbe deontologicamente supportare e coadiuvare un artista, non inventarselo, soprattutto a discapito dell’interessato. Di certo il protagonista indiscusso di questa operazione veneziana è Gioni medesimo, che diventa esso stesso artista e presenza egotica.
La seconda, strettamente connessa ma ben più grave della prima, è la mancanza di coraggio verso proposte veramente innovative, e per questo rischiose, che però aprivano ipotesi, tracce, persino ponti per il domani. Si assiste per l’ennesima volta a un ripiegamento sul passato che non è né di tipo enciclopedico (Borges) né catalogatorio (Warburg): un viaggio onirico e di certo arbitrario verso le pulsioni dell’essere umano e la sua irrazionalità o presunta tale. Non sento fascinazione autentica verso l’anima saturnina nei lavori proposti, ma colgo semmai la mera rappresentazione di un flusso carsico, mai impiegato come proiezione o proposta per una diversa accezione dell’opera d’arte. La coazione a ripetere tanto decantata non può essere cioè la scusa di un omologarsi al diluvio di immagini e avrei preferito che venisse attuata una ecologia della visione, per un approccio curatoriale certo più responsabile.
Un’ultima lancia, proprio partendo dal piacere sensoriale, però vorrei spezzarla: non è che proponendo una “edizione bella e leggibile” finalmente Gioni conferisce al dato formale ed estetico una rinnovata centralità? Diventando, quasi a sua insaputa, una Biennale democratica e diversa dalle ultime edizioni, potrebbe riconfigurarsi come rivoluzionaria.
Andrea Bruciati
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati