Gioni che installa Breton (e il figurale). La Biennale secondo Pericle Guaglianone
“Il Palazzo Enciclopedico” è una mostra in forma di libro-wunderkammer (molto) illustrato. Non è uno spaccato a 360° sull’arte contemporanea, ma un gesto intellettuale e critico puro. Per visitare la mostra di Gioni occorrono quindici giorni. Oppure, volendo, può bastare un’oretta. Il suo nume tutelare è André Breton.
Fortunato chi ha visitato (o visiterà) in una stessa giornata le mostre veneziane curate da Massimiliano Gioni e Germano Celant. Cioè a dire Il Palazzo Enciclopedico e la riproposta When Attitudes Become Form, la leggendaria collettiva curata nel ’69 da Harald Szemann, la quale s’intitolava in realtà Live in Your Head: When Attitudes Become Form (una verità, questa riguardante l’effettivo titolo di quella mostra straordinaria, che per chi ne fosse all’oscuro vale da sola la visita a Ca’ Corner della Regina).
Lo shock che si riceve nel visitare a stretto giro le due collettive non ha prezzo. Da una parte ci sono infatti opere di tipo installativo-oggettuale e di matrice processuale e concettualista (a proposito di shock: allestitivamente parlando, oggi la mostra di Szemann può risultare costipata, il che è un bel paradosso, visto che si tratta della collettiva di installation art più ammirata e celebrata!); dall’altra parte, ne Il Palazzo Enciclopedico domina invece la visionarietà figurale di artisti (di professione e non) poco o nulla interessati a “dialogare con lo spazio”, il che è effettivamente sbalorditivo, visto che l’installazione ambientale è di gran lunga la pratica più frequentata dagli artisti visivi dagli Anni Novanta in qua. Brutalizzando si può affermare che in questo ideale confronto Celant-Gioni, da una parte c’è la spazialità e non ci sono le immagini, e dall’altra ci sono le immagini e non la spazialità. Così, mentre in una mostra aleggia Marcel Duchamp, nell’altra il nume tutelare è André Breton. Si noti che l’effigie del boss del surrealismo, ritratto in posa significativamente eyes wide shut, ne Il Palazzo Enciclopedico è stata collocata – anzi installata, dal curatore però – proprio in apertura di mostra, in compagnia di due star della rivoluzione (e conseguentemente dell’estetica) psicologista novecentesca: Carl Gustav Jung e Rudolf Steiner.
La premessa di Gioni si direbbe la seguente: con tutte le Biennali (e di conseguenza le mega-collettive a queste collegate) che ci sono in giro per il mondo, non si capisce perché la mostra-chiave della Biennale delle Biennali debba necessariamente fungere da collettore per hype del momento, e non possa invece ospitare (e dunque costituire) un gesto intellettuale e critico puro, magari sconveniente e controverso. Opinione rispettabilissima e anzi condivisibile. E che trova rispondenza nel fatto che Il Palazzo Enciclopedico non è né uno spaccato a 360° sull’arte contemporanea attuale, e nemmeno su quella storica (ospita infatti indifferentemente artisti in erba e artisti trapassati), ma una mostra che proprio per il fatto di essere sostanzialmente priva di installazioni ambientali e di lavori di matrice processuale e concettualista, è un “oggetto” esteticamente caratterizzato che sta in piedi come tale, e che funziona di conseguenza come un’installazione essa stessa (critica, s’intende). Gioni voleva insomma “dire” qualcosa lui, è andato dritto per la sua strada e ha messo su una mostra sul figurale psych ricca, apodittica e concettualmente bidimensionale, che ha forma di libro-wunderkammer (molto) illustrato, e che può essere vista sia in quindici giorni, che, volendo, in un’oretta soltanto; una mostra che (paradossalmente se si vuole), proprio in ragione del numero sterminato di immagini di cui si compone, si offre in modo così stringente da consentire al fruitore che preferisse arrivare al succo della lezione, piuttosto che immergersi nelle tante teche da museo etrusco illuminate al neon in cui si articola, di fare presto.
Bisogna dirlo: ciò che conta ne Il Palazzo Enciclopedico è il suo postulato politicamente scorretto, elaborato con sagacia e astuzia notevoli. Il concept della progettualità utopica (con le collezioni bizzarre, le costruzioni in scala e le cosmogonie più o meno deliranti) è il grimaldello con cui Gioni ha potuto imbastire un’ode credibile nei confronti del figurale e del rappresentativo, mantenendosi a distanza di sicurezza sia dalla retorica espressionista (cioè a dire dall’immagine-sfogo) che da quella documentarista (relativa all’immagine-resoconto), per non parlare di quella ingenerata dal pastichismo postmodernista (cioè a dire dall’immagine-show). In più, ha intelligentemente costruito il suo totem iconofilo aggrappandosi a Breton, che del vate del ready made e dell’installation art può essere visto più come compagno di cordata, che come avversario. Così, attenendosi a una grammatica tuttora spendibile, Gioni è riuscito a mettere su un “saggio” di ecologia dell’opera d’arte, nel quale viene ricordato – in modo anche martellante – che il presupposto imprescindibile del fare artistico è la visionarietà. Il nocciolo della mostra è questo; il rovescio della medaglia è che nel suo dare conto di un’arte linguisticamente risaputa, arcaica o al più fuori dal tempo, Il Palazzo Enciclopedico non funziona granché in termini strettamente propositivi, cioè a dire come presentazione di un qualche paradigma ulteriore; mentre funziona invece – e in modo formidabile – in chiave di provocazione intellettuale anti-retorica, vale a dire quale denuncia, implicita ma sferzante, della carenza di urgenza visionaria che attanaglia il manierismo vigente oggi.
Pericle Guaglianone
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