Gioni e Clair e Calvesi. La Biennale secondo Lorenzo Canova
Il Palazzo Enciclopedico, a cura di Massimiliano Gioni, è forse la migliore edizione delle Biennali veneziane negli Anni Zero, anche per il coraggio di non adeguarsi a uno stilema di mostra internazionale comodo e conformista, cercando invece di dissodare terreni di confine, forse non sempre ricchi di frutti, ma in ogni caso stimolanti.
Per chi ha una formazione di storico dell’arte legata all’iconologia e al mistero del simbolo da scoprire all’interno dell’opera d’arte, la Biennale di Gioni evoca suggestioni e nessi che vanno lontano. Molto efficace appare anche il nuovo allestimento dell’Arsenale, che valorizza bene le opere e l’attenzione per figure isolate e spesso sconosciute.
Ogni mostra ben fatta diventa inevitabilmente un racconto costruito dal curatore e la narrazione, in questo caso, si segue con interesse, forse più nell’impianto generale che nei singoli paragrafi.
In questo contesto è molto affascinante comunque la partenza archetipa della mostra col Libro Rosso di Carl Gustav Jung, intellettuale che, va ricordato, ha avuto una parte molto importante negli studi di Maurizio Calvesi sull’alchimia e che, a loro volta, ebbero una certa influenza su molti artisti tra la fine degli Anni Sessanta e i primi Settanta. Gioni, non a caso, che è anche un attento storico dell’arte, ha giustamente valorizzato il patrimonio storico della Biennale e Il Palazzo Enciclopedico, tra l’altro, oltre a un generalmente riconosciuto rapporto con il taglio antropologico di Identità e alterità, la celebre mostra di Jean Clair per la Biennale del 1995, sembra legato anche alla Biennale del 1986 curata dallo stesso Calvesi.
Due sezioni di quella Biennale, dedicate all’enciclopedismo della Wunderkammer (curata da Adalgisa Lugli) e ad Arte e alchimia (a cura di Arturo Schwarz) sembrano infatti riecheggiare nelle parti più ermetiche, cabalistiche e steineriane della Biennale di Gioni, che appare anche una riflessione a ritroso sulle radici teosofico-misteriche di molti padri delle avanguardie del Novecento, prototipi dei linguaggi tardo-moderni che sembrano trionfare nei diversi padiglioni nazionali. L’apertura alle diverse forme espressive, accomunate più che altro da nessi tematici e di contenuto, rappresenta poi il giusto modo di costruire una mostra senza pregiudizi, volendo così dare il segno di quella complessità enciclopedica che struttura l’intero progetto.
Nei padiglioni nazionali si apprezza una buona qualità generale: rigoroso e ben composto quello Vaticano; un compito pulito e ordinato quello italiano, una dieta senza particolari picchi, utile a curare gli eccessi caotici dell’edizione precedente. Negli altri spazi nazionali spicca l’affascinante tecnologia unita alla natura che scopre la voce e il respiro degli alberi di Terike Haapoja (finlandese, nel Padiglione dei Paesi Nordici), un’idea che sembra sviluppare una suggestione di Luca Patella, uno dei più enciclopedici, ermetici e duchampiani artisti italiani. Nello scambio di padiglioni tra Francia e Germania, molte suggestioni arrivano invece dal remix dedicato alla musica di Ravel dal franco-albanese Anri Sala (Francia) e, per la Germania, dal labirinto di sgabelli di Ai Weiwei, carico di richiami personali e collettivi, e dalle foto Dayanita Singh, che colgono il mistero e la realtà dell’India con icastica forza espressiva, come, in modo affine, si scopre nelle foto di Edson Chagas nel padiglione Leone d’Oro dell’Angola.
Altrove le opere più interessanti appaiono quelle più dense di memoria, come la misteriosa installazione del cileno Alfredo Jaar, con il suo plastico sommerso e riemerso dei Giardini della Biennale; le riflessioni geometriche sulla forma continua di Hélio Fervenza, Odires Mlászho, Lygia Clark (Brasile), che partono da un capolavoro di Bruno Munari, fondamentale base dell’arte ambientale; gli intensi video dell’italo-brasiliano César Meneghetti (nel padiglione Kenya) realizzati con i laboratori romani per disabili della Comunità di Sant’Egidio; il raffinato gioco-omaggio sul cartoon disneyano di Mathias Poledna (Austria); il simbolico e misterico percorso dedicato al mito di Danae da Vadim Zakharov (Russia); la multimediale e densa riflessione sulla storia e la società britannica di Jeremy Deller.
Tuttavia, nel contesto generale della fusione dei linguaggi oggettuali con inserti hi-tech, spicca il padiglione cinese: innovativo e allo stesso tempo inattuale (in senso nietzscheano), con opere dove il linguaggio iconico viene rielaborato e reso vitale attraverso un uso sapiente del digitale e delle tecniche grafico-pittoriche, nella lucida visione critica, politica e sociale delle foto di Wang Qingsong, nell’animazione Mist di Zhang Xiaotao, sospesa tra apocalisse e palingenesi, nelle opere colte di Miao Xiaochun, che mescolano grafica in 3D, animazione e pittura, indicando un percorso dove tecnologie, storia dell’arte e visionarietà uniscono continenti e sguardi per costruire i sistemi complessi dei linguaggi del futuro.
Lorenzo Canova
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati