Gruppo78. Trentacinque anni di battaglie sul confine
È lunghissima l’attività del triestino Gruppo78, che viene celebrata con una mostra che ripercorre l’attività dell’associazione, a partire dalle performance di Nitsch e di Otto Mühl. Abbiamo ripercorso la storia dell’associazione con Maria Campitelli, curatrice e cofondatrice del gruppo. Mentre la mostra prosegue fino all’8 agosto a DoubleRoom.
Il Gruppo78 nasce in un periodo cruciale della storia sia politica che artistica dell’Italia. Da quali stimoli siete partiti?
Siamo nati dal fatto che a Trieste, città al margine dell’Italia, ci sentivamo tagliati fuori nei confronti dell’arte contemporanea. Mancava l’informazione su ciò che di nuovo, e spesso dirompente accadeva: gli Anni Sessanta e Settanta erano gli anni delle neo-avanguardie. In più il locale Museo Revoltella, la più importante istituzione per le arti visive della nostra Regione, era chiuso per lavori di ristrutturazione, durati ben 25 anni. Gli artisti locali, gli intellettuali si sentivano orfani di una qualche struttura che non solo accogliesse i frutti delle loro ricerche, ma soprattutto promuovesse cultura e informazione a livello internazionale. Il Gruppo78 è nato da questa carenza.
Cosa vi portava a un approccio collettivo?
Al di là di specifiche motivazioni socio-politiche che pure fermentavano in quell’epoca e che nel nostro caso risultavano secondarie rispetto alla primazia di avere un luogo di riferimento per l’arte e la cultura, è stato il desiderio comune che ci ha spinto a riunirci di tentare di cambiare le cose, proponendoci innanzitutto, prima di programmare qualsiasi attività, di contattare gli amministratori locali, spiegando loro come la città si deprimesse senza museo e un progetto culturale inerente l’arte contemporanea.
Che reazioni avete avuto nel mondo politico?
Gli approcci con i rappresentanti del potere sono stati tutti più o meno disastrosi e abbiamo toccato con mano per la prima volta come la politica fosse aliena alla cultura e soprattutto all’arte contemporanea. Venivamo quasi derisi per quello che chiedevamo, ricordo che un assessore alla cultura non sapeva nemmeno che esistesse la Biennale di Venezia… Il contemporaneo non alletta il politico, che da sempre, salvo casi assai sporadici, preferisce riconoscerci nella storia collaudata e consacrata. Ora qualcosa sta mutando, con il recente cambio politico, forse per la prima volta in 35 anni, ma non ci sono i soldi…
E che reazioni avete avuto dal pubblico?
Un po’ alla volta ce lo siamo costruiti, e abbiamo anche favorito la crescita di altre situazioni, gruppi e associazioni. Crediamo cioè di aver contribuito ad allargare la sensibilità e l’interesse verso il contemporaneo. Anni fa, quando abbiamo organizzato grandi mostre ospitate in più sedi, c’era una massa ondeggiante che si spostava assieme a noi da location in location. Ed era uno spettacolo entusiasmante! Ora questi progetti, con la recessione, il decadimento totale della cultura, non sono più nemmeno immaginabili.
Vi siete occupati di arte pubblica, tra i primi nel nostro Paese…
L’arte pubblica era di pertinenza, specie all’inizio, del mondo anglosassone. Avevamo dei contatti, soprattutto attraverso artisti e curatori italiani emigrati a Londra, con quelle esperienze verso un’arte che si manifesta nelle strade, nei nuovi agglomerati edilizi. Era spesso ampiamente sostenuta e finanziata dagli enti pubblici, a differenza di noi, non sempre alimentata da motivazioni socio-culturali. Da questo mondo abbiamo ereditato ad esempio il progetto manifesti d’artista, grazie a Elisa Vladilo, ripetuto in diverse edizioni, con grande successo. Il modello cui ci siamo ispirati era Belfast, poi trapiantato a Milano attraverso Careof. Ma poi abbiamo svolto e continuiamo a svolgere tanti altri eventi d’arte pubblica, poiché si è formato un gruppo, all’interno dell’associazione, che pratica workshop, esperienze di arte relazionale, in aree critiche della città, come il presidio presso il Museo Ferroviario dell’anno scorso. Nel complesso nel Gruppo78 ci sono più artisti che praticano l’arte pubblica che non artisti che producono lavori più tradizionali da parete.
Quali sono stati i punti più interessanti di questi 35 anni?
Innanzitutto abbiano promosso giovani artisti del territorio, usufruendo di tutti gli spazi possibili nella città, non avendo uno spazio nostro. E poi la grande attenzione all’espressione corporea: vorrei ricordare la versione danzata dell’Arlecchino di Stockhausen, nel 1984, che è stata una prima mondiale, e Painting the music and dance di Jean Edelstein, in cui l’artista fondeva in un unico momento creativo danza e pittura. Ma è con Achtung auf den Zug del ’95 che iniziano le grandi mostre internazionali, seguita da Natura Naturans. Esposizioni come Transformation o Shock&Show testimoniano invece un’attenzione verso problematiche di attualità, mentre Troubled Times, che raccoglieva artisti dello spessore dell’Abramovic, degli Irwin, a confronto con missili, carri armati, nel Museo della Guerra De Enriquez. E poi il Festival internazionale di arte elettronica e La città radiosa, mostra imperniata sulla mappatura dei luoghi dismessi e de-antropizzati della città di Trieste.
Ci racconti dei rapporti internazionali maturati?
I primi rapporti sono stati naturalmente con gli sloveni e gli austriaci, come nella mostra Translimina che abbracciava i tre versanti italiano, sloveno e austriaco. Con Extended Transformation abbiamo realizzato un vero e proprio tour nei migliori musei pubblici d’arte contemporanea di Slovenia, Croazia, Bosnia. Ma certo il rapporto internazionale più incredibile si sta realizzando adesso con il Messico. Nato da una mostra di Manolo Cocho, al Museo Carà di Muggia, è cresciuta quest’idea di un ponte di scambio che cavalca l’oceano. E i contatti si sono allargati portando 36 artisti del Gruppo78 a Oaxaca e al Museo Arocena di Torreon, dove saranno in mostra fino a settembre.
Come sono strutturati la mostra e le performance celebrative?
La mostra intende presentare la densa storia del Gruppo78 attraverso materiale d’archivio (foto, video, progetti e manifesti) sulle performance e gli happening prodotti, divisi in sezioni tematiche cronologiche a partire dalle memorabili performance degli Anni Settanta di Hermann Nitsch e di Otto Mühl (cui è dedicata una sezione con foto e opere inedite da lui realizzate a Trieste). Fino allo straordinario spettacolo multimediale di danza verticale realizzato sul pontone Ursus nel 2010 e la performance dell’artista sudafricana Mamela Nyamza. E poi nuove performance che si snoderanno durante tutto l’arco della mostra.
Daniele Capra
Trieste // fino all’8 agosto 2013
35 performance del Gruppo78
a cura di Maria Campitelli e Massimo Premuda
DOUBLEROOM
Via Canova 9
349 1642362
[email protected]
http://doubleroomtrieste.wordpress.com
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