Il lato oscuro in Laguna. La Biennale secondo Stefano Castelli
Irrazionalismo, spontaneismo, occultismo. Lo sforzo enciclopedico di Gioni apre questioni spinose, e rischia di essere un calderone in cui tutto è intercambiabile. E poi: davvero si distacca dai metodi della comunicazione di massa?
Lo preciso subito, la mostra di Gioni non è “brutta” in senso letterale. Molte opere sono di evidente valore, solo poche non sono all’altezza, il percorso a tratti stimola e incuriosisce. Certo, non è immune da difetti: l’allestimento comprime troppe opere e si perde in parti noiose perché troppo insistite. Ma le questioni spinose emergono se si guarda alla mostra nel complesso, al significato che ne risulta. Sotto questo profilo, le parole con cui definirei questa Biennale sono: regressiva, tendenziosa, fuorviante. Mi spiego.
Il rischio dell’intercambiabilità
Gioni annuncia che la sua Biennale raccoglie autori che hanno cercato di rappresentare e capire il “tutto”. Ma il risultato è una sorta di olismo dove ogni cosa equivale a ogni altra. Proprio come nella comunicazione di massa – satura di messaggi e immagini intercambiabili – che Gioni dichiara di voler contrastare con la sua esposizione.
Due sono le strade oggi percorribili da un artista che voglia evitare un’estetica autoreferenziale: la proposta di un’alternativa radicale o la mimesi critica. Nessuna della due emerge dalla mostra. Essa è troppo segregata nella dimensione del sogno e dell’incubo per disegnare un’alternativa credibile; e la mimesi che delinea non è affatto critica, data l’indifferenziazione che la pervade, così simile a quella della Neolingua della comunicazione.
L’artista come essere stralunato
Sogno e incubo, si diceva. Molte opere si basano su una lodevole spinta politica: guardano ai gangli della società e li denunciano. Ma il loro potere contestatario è annacquato dall’accostamento con le tantissime opere che cedono allo spontaneismo, al personalismo, in alcuni casi al surrealismo (corrente antipolitica per eccellenza e oggi improponibile se non come reperto storico).
La biografia tormentata dell’autore non determina la rilevanza di un’opera: il biografismo è anzi uno dei peggiori mali che infestano oggi la lettura dell’arte. E dunque l’inserimento indifferenziato di tanti outsider getta fumo negli occhi. Oltretutto, sembrano usati per dimostrare l’indimostrabile: ovvero che l’opera d’arte prescinde dalle motivazioni intellettuali e da un linguaggio specifico. E per dirla tutta, al di là dell’effetto e dello stupore, la qualità di alcuni di questi artisti non è così alta: Wölfli, ad esempio, è davvero un’altra cosa. L’artista svizzero, detto per inciso, non fu grande perché arrivò a risultati eccellenti nonostante i disturbi mentali. Ma solo per le opere in sé, indipendentemente dai suoi problemi. Ci sono voluti decenni perché lo si capisse, e trattazioni dell’outsider art come quella di Gioni rischiano di buttare nel cestino questa consapevolezza.
Infine, l’inserimento di così tanti “marginali” rischia di perpetuare uno degli stereotipi più radicati sull’arte contemporanea: ovvero quella per cui l’artista è una figura stralunata, istintiva, slegata dalla realtà, un’anima bella alle prese con le proprie ossessioni personali che non ha niente da dire alla società se non farla ridere, inorridire o stuzzicarne gli istinti più o meno bassi.
Deriva irrazionalista
Altro sintomo della deriva verso l’irrazionalismo, la scelta dei numi tutelari che costellano la mostra. Finisce per risultare tendenziosa la scelta di figure come Jung, Steiner, Crowley. Ancor di più essendo gettati in maniera indifferenziata nel calderone di autori e opere. Fosse stata una mostra sui fallimenti della ragione, la scelta sarebbe stata esemplare. Ma qui l’intento dichiarato è un campionario di autori che hanno inseguito l’utopia di catalogare l’ampiezza dello scibile. Ebbene, Jung rappresenta la corrente psicanalitica più compromessa con l’irrazionalismo, ed è ormai piuttosto marginale nel campo psicanalitico e ampiamente screditato in quello dell’indagine filosofica tout court. Il pensiero di Steiner è come minimo controverso, mentre l’inserimento di Crowley, un satanista non si sa quanto folle e quanto criminale, lascia veramente sbigottiti, soprattutto perché la sua figura non è contestualizzata. L’inserimento di Caillois faceva ben sperare, ma la sua presenza come “collezionista di pietre” riduce anche la sua figura all’aneddotica. E mi risulta incomprensibile, in una mostra che si propone scopi come quelli dichiarati, il mancato ricorso a figure come Lacan, con il suo inarrestabile esercizio del linguaggio, e Beckett, con la sua ansia combinatoria.
In conclusione, la mostra di Gioni mi sembra l’applicazione sfortunata e involontariamente regressiva di un progetto dalle intenzioni nobili. Il bello slancio di voler catalogare l’ansia di conoscenza sfocia in un’antologia che somiglia alle letture “alternative” di un liceale nella sua fase trasgressiva. Una mostra così fuorviante rischia di trovare i suoi destinatari privilegiati in due figure paradigmatiche e caricaturali: il detrattore dell’arte contemporanea, che non sa leggerne il linguaggio specifico, e la signora bene (o che si atteggia a tale) che con malcelato pietismo si sorprenderà della bellezza delle opere di marginali e folli. E non oso pensare all’influenza nefasta sugli aspiranti artisti, soprattutto italiani, che in molti casi già tendono a forme corrive e antisociali di pop snaturato, onirismi vari e figurativismi fuori tempo massimo. Cullati dalla totale inconsapevolezza del mondo là fuori.
Stefano Castelli
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