James Gandolfini, in memoriam (1961-2013)
La morte di James Gandolfini a Roma, in una serata di inizio estate, ha colpito tutta la nostra generazione senza trovarci però impreparati. Roma, d’altra parte, sembra esercitare un oscuro potere di attrazione sulle star del mondo anglosassone. E così se ne è andato il mitico Tony dei Soprano...
C’è una puntata dei Soprano che è forse la mia preferita di tutta la serie. Tony è in coma, nella realtà (lo zio Junior gli ha sparato in pancia). Nel sogno, Tony non è più Tony: è un pacifico rappresentante che, per un caso fortuito, rimane bloccato senza documenti e senza carta di credito nell’hotel del Midwest dove si tiene il convegno a cui deve partecipare. Si comporta in maniera diversa, parla in maniera diversa, pensa in maniera diversa. La sera, da solo nella sua camera, osserva una stella cometa che attraversa il cielo.
Mi piace pensare che la cometa sia la sua identità “altra”, quella del boss che conosciamo così bene come spettatori dei Soprano e che proprio per questo adesso ci sembra così aliena. Assistiamo a una complessa procedura di disidentificazione, ottenuta tutto sommato con mezzi finzionali semplicissimi: questo gioco molto serio, che rimane sostanzialmente un unicum, continua a dirci qualcosa di sfuggente e misterioso, che ci introduce però chiaramente in una dimensione metafisica.
La morte di James Gandolfini a Roma, in una serata di inizio estate, ha colpito tutta la nostra generazione senza trovarci però impreparati. Roma, d’altra parte, sembra esercitare un oscuro potere di attrazione sulle star del mondo anglosassone. Senza scomodare l’archetipico Toby Dammit felliniano, lo stesso Kurt Cobain quando eravamo adolescenti tentò una prima volta di uccidersi in un hotel di via Veneto: ebbe successo a casa sua, a Seattle, qualche giorno dopo (Tommaso Pincio se ne è occupato da par suo – in Cinacittà e in Pulp Roma – inserendolo in un’articolata visione metaforica della “dolce vita” come culla dei fantasmi italiani).
Certo, la morte di Gandolfini non è, in senso stretto, un suicidio; ma ci appare ugualmente intrisa di una sua immensa, gloriosa tristezza. Da “fine impero”, direbbe Giuseppe Genna. L’immagine di questo omone con gli occhi di cucciolo che è riuscito a riempire e saturare l’immaginario collettivo, il pensiero di questo attore che muore troppo presto dopo aver raggiunto il successo piuttosto tardi, e mentre aveva ancora tanti progetti da realizzare… beh, è qualcosa che si fa abbastanza fatica a sostenere. (E in quegli occhi c’è sempre stato il sentimento della fine, del fallimento, della rovina: non senza lotta dura. Come nell’enigmatica scena finale della serie tv – tweettata e retweettata migliaia di volte – in cui l’immagine va semplicemente al nero sulle note interrotte di Don’t Stop Believin’ dei Journey. James Gandolfini era l’enigma: impossibile spiegare, infatti, come riuscisse a coniugare nel suo personaggio violenza cieca e tenerezza, affetto e crudeltà, sperimentazione e volgarità, collaudo estremo della propria identità e assenza cronica di introspezione.)
Stefano Ciavatta ha scritto quello che è e rimarrà con ogni probabilità il miglior epitaffio a questa figura tragica, contrapponendo la meravigliosa e reale “grande bruttezza” romana che è il contesto di questa morte epocale alla “grande bellezza” di Paolo Sorrentino, del tutto finzionale ed esornativa: “‘Today, we cut to black’ ha scritto la HBO su Twitter, silenzio e buio in onore di James Gandolfini, che dall’altra parte dell’oceano si trova inaspettatamente a cento passi dal ‘monumentale cimitero del Verano’, una città nella città, la più antica dimora funebre della Roma moderna, voluta da Napoleone. Un cimitero che non ha nulla di severo, non incute timore, anzi è quasi sornione. ‘La morte a Roma ha sempre un aspetto familiare, da parente […] il che toglie alla morte l’angoscia, l’ansia nevrotica’, raccontava Fellini a proposito delle scene tagliate sul Verano e che non entrarono mai nel film ‘Roma’ (un luogo ignorato anche dalla ‘Grande Bellezza’ di Sorrentino). Il Verano non ha l’aspetto di solenne pulizia dei piccoli cimiteri americani del New Jersey e soffre invece di una manutenzione irregolare. Anche per questo l’irrequieto Gandolfini, che per sei lunghe stagioni dei Soprano sfiata come una balena cercando di mettere ordine agli istinti del sangue e del business, le sue due comunità di appartenenza, nel Verano ci avrebbe ciabattato dentro, come suggeriva lo stesso Fellini” (Europa, 24 giugno 2013).
Eppure, James Gandolfini non era solo Tony: magari non lo disprezzava, ma di certo ha lottato negli ultimi dieci anni per non esserlo più, per non rimanere schiacciato e intrappolato in quella “persona”. Valga per tutti l’esempio di Cogan-Killing Them Softly (Andrew Dominik, 2012), in cui interpretava in un universo narrativo completamente e compiutamente post-Soprano – volutamente privo della grandezza residua del New Jersey che tutti abbiamo amato, disumanizzato e desertificato dall’impatto della crisi economica – il killer sull’orlo di una crisi di nervi. Il killer che ha perso il controllo, ormai sopraffatto dalle sue dipendenze e dai suoi demoni, e al quale il freddo e pragmatico Cogan-Brad Pitt si rivolge con rispettosa commiserazione.
A questa figura colossale, tratteggiata genialmente in ogni minimo dettaglio (i tic gestuali e verbali, gli occhiali, il basso continuo delle piccole e grandi ossessioni, la ripetitività, la brutalità controllata a fatica, gli scoppi sconcertanti di autentica disperazione e paranoia) Gandolfini ha consegnato forse il suo testamento artistico. Regalandoci un personaggio che è un terrificante crepaccio umano.
Christian Caliandro
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