La crisi e le opportunità
Ma viva la crisi, santocielo. Certo è che non solo stanno chiudendo le aziende e sta andando a ramengo tutto il nostro tessuto produttivo, ma i tagli agli investimenti culturali - sia pubblici che privati, intendiamoci - mettono a rischio le realtà espositive e artistiche d'Italia. E questo appare a prima vista come qualcosa di profondamente negativo e demoralizzante. Ma è davvero così? Oppure possiamo sforzarci di trovare in questo quadro (che è dato e che non cambierà, almeno non a breve e neppure a medio termine), oppure possiamo sforzarci, dicevamo, di trovare chiavi di lettura positive ed elementi elettrizzanti in tutto ciò?
Fabbriche che chiudono, disoccupazione, posti di lavoro perduti, impossibilità per i giovani di trovare un impiego. Male, ma bene se grazie a questo shock le nostre produzioni inefficienti e fuori dal tempo si riconvertono, perché comunque sarebbe stato tutto spazzato via. Crisi o non crisi. E solo uno shock avrebbe potuto smuovere la cancrena di inedito e malgestito benessere che gli italiani si sono goffamente cuciti addosso negli ultimi 45 anni. Meno cose, più efficienti. Magari meno nanismo imprenditoriale e più alleanze, più fusioni, più massa critica che il romanticismo delle PMI regge fino a un certo punto.
Badate, nell’arte vale la stessa cosa. Identica. Chiudono musei? Fantastico, se nel decennio precedente senza alcuna pianificazione, senza logica e senza previsioni se ne erano aperti quasi due dozzine pure nei posti più improbabili. Che ne restino tre o quattro di cui uno di livello internazionale e tre di valenza regionale. La crisi si mangia le gallerie d’arte? Ma è una benedizione: a Roma dal 2002 al 2008, negli anni d’oro, se n’erano aperte oltre 100. Molte hanno chiuso, ma non si è mai vista una stagione con mostre così belle negli spazi privati: altro che crisi. Il paradigma è cambiato e non ti concede più il lusso delle imprese avventate, personali, di provarci e vediamo come va. Perché va senz’altro male. Dunque meglio concentrarsi, fare sinergia: invece di aprire io una galleria improbabile e aprirne una tu altrettanto traballante, io chiudo la mia e i soldi che ho smesso di dilapidare li porto da te e diventiamo soci. Ha chiuso una galleria, ma è una manna dal cielo, mica una chiusura per la quale disperarsi.
Succede uguale uguale nelle riviste. La crisi è blu e noi non abbiamo mai fatto un numero di Aritribune Magazine così zeppo di inserzioni pubblicitarie. Perché? Perché un visibilio di riviste hanno chiuso o stanno per farlo, non ce la fanno a stampare, non danno garanzie a chi vi investe: i clienti se ne accorgono e concentrano gli investimenti su chi appare più solido. È una tragedia per il diritto di informazione se un settore di ultranicchia come quello dell’arte contemporanea in Italia si ritrova una dotazione di 5 o 10 testate invece che di 20 o 30? Oppure è semplicemente buonsenso? O scappiamo sul pianeta Plutone o proviamo a guardare la crisi come cambiamento e cerchiamo di vederci dentro gli aspetti positivi che indubbiamente ha. Si riassestano interi ambiti e rischia, per una volta, di trionfare la meritocrazia in tutti i campi.
Prendete, e concludiamo, le mostre d’arte. Sono diminuite spaventosamente, ma i dati fino al 2009/2010 parlano di numeri sconsiderati: una inaugurazione ogni 8 minuti ogni dannato giorno dell’anno. La Biennale di Venezia, alla quale il numero 13/14 di Artribune Magazine è dedicato, dimostra che quando l’Italia (con le sue idee, i suoi format, i suoi soldi oltretutto) si concentra su obiettivi precisi e di qualità, produce risultati d’eccellenza. La Biennale è il più importante evento d’arte contemporanea del pianeta: è realizzato in Italia, con soldi italiani che, attenzione a questo passaggio, vengono doppiati dagli investimenti stranieri, perché gli eventi concentrati e lucidi catalizzano le risorse, mica le fanno scappare come al solito. Per massimizzare il risultato, la Biennale si tiene addirittura ogni due anni, altro che una mostra ogni 8 minuti…
Il tempo dell’abbondanza senza costrutto lo abbiamo vissuto, ci siamo divertiti, ma ora è finito. È venuto il tempo di fare meno cose e farle per bene, senza disperdere le energie. Il campo è cambiato e questa è la nuova partita da giocare.
Massimiliano Tonelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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