La misura della distanza. La Biennale secondo Ginevra Bria
Il Palazzo Enciclopedico si svela. Neocolonialismi dell’arte e simbologie trascendenti. Nostalgie del futuro e obsolescenze del passato. Terre in cerca di tempo e di demarcazione. Esplorazioni continue e nuovi orizzonti di visibilità. Ecco il contemporaneo del sapere sconosciuto.
La nascita dei più grandi musei europei e americani del XIX secolo è stata segnata da un periodo di ossessione per il progresso. Mentre la proliferazione di eventi dal richiamo internazionale, come biennali e triennali, nel XX e all’inizio del XXI secolo hanno sempre sottolineato la ricerca di forme di identità individual-nazionali e di posizionamenti dell’arte, all’interno del processo di globalizzazione. Le Biennali stanno fiorendo ovunque, in particolare in Paesi in precedenza colonizzati, marginalizzati e identificati come aree politicamente tumultuose. Le Biennali sono diventate meccanismi attraverso i quali Paesi ospitanti, spesso politicamente, culturalmente ed economicamente marginalizzati, sostengono le loro relazioni con le parti dominanti del mondo, nel segno di un neocolonialismo culturale. Tra Venezia, Gwangju e Johannesburg, la componente sociopolitica, differentemente distribuita, mette a confronto le dicotomie esistenti tra diversità culturali in relazione alle diversità ambientali; tra rapporti e reciproche influenze tra le diverse nazioni; e infine tra sistemi di sussistenza e sistemi economici.
La 55. Biennale di Venezia si erge sul brevetto di un museo immaginario, depositato da un poco noto Marino Auriti, progetto mai realizzato (Il Palazzo Enciclopedico) che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere dell’umanità. Un edificio di 136 piani prefigurato per raggiungere i settecento metri di altezza e occupare più di sedici isolati della capitale del potere per eccellenza: Washington. Il modello fisico, l’originale in legno laccato del Palazzo, è esposto come prima opera dell’Arsenale, perfetta sintesi contemporanea tra un museo delle culture e una biennale: segno di un progresso utopico alla ricerca di un’identità politica globale.
Forse a causa della dilagante congiuntura economica, che ha messo in ginocchio le risorse e l’immagine del Vecchio Continente, lo spostamento altrove dello sguardo di questa Biennale e la migrazione spazio-temporale dell’orizzonte visibile rivelano tutta l’inquietudine di una ricerca (si pensi ad esempio ad Ai Weiwei e Anri Sala fra Padiglioni Francia e Germania, a loro volta territori di interscambio). Nonostante nulla sembri mancare. Il cerchio del sapere, nel Palazzo Enciclopedico, sembra, infatti, stringersi attorno a domande più che a responsi. Dove trovare terre inesplorate, dove nuovi giacimenti di senso, nuovi sistemi di sussistenza, nuove spiritualità, ora che ogni distanza dal sapere sembra accessibile? Dove dunque poter spingersi e arrivare a conoscere (il Leone d’oro per la migliore Partecipazione nazionale all’Angola è indicativo)?
La dotta sovrapposizione di diversi assi dimensionali, nel percorso della mostra curata da Gioni, e allestita impeccabilmente tra Arsenale e Giardini, rende il percorso avulso, spurio da confronti diretti e da collegamenti critici. Tra artisti noti ed emergenti, opere d’arte contemporanea, reperti storici, objet trouvé, sogni, totem e artefatti mostrano la cartografia diacronica di una ricognizione sistematizzata e densissima seppur retrograda; spinta verso terre ulteriori, nuove-antiche nicchie all’interno delle quali sostare per provare a essere luoghi nel mondo. Le opere spaziano dall’inizio del secolo scorso a oggi, includendo più di 150 artisti, provenienti da 38 nazioni. Dunque, come mai ne Il Palazzo Enciclopedico conoscenze e forme esperienziali del contemporaneo assumono un carattere scientifico, etnologicamente analitico, osservato ab originis?
Nonostante la mostra si apra ufficialmente al Padiglione Centrale ai Giardini, con l’ostensione del Libro Rosso di Jung, la risposta sembra emergere fin dalle prime sale delle Corderie: fra le foto di J.D. ’Okhai Ojeikere, nelle miniature vascolarizzate di Lin Xue, nel corallo in metastasi tridimensionale di Roberto Cuoghi, nei disegni onirici di Yüksel Arslan per passare attraverso il telaio incrociato di Ștefan Bertalan. Spetta a questi artisti (senza escludere Beloufa e Williams), intenzionalmente o meno, una dichiarazione di poetica antropologica, dando vita a uno studio dell’uomo condotto attraverso la genesi e la classificazione delle diversità umane.
Di seguito, i dipinti ossessivo-compulsivi di Daniel Hesidence, le figure dissolte di Hans Josephsohn, le fotografie aeree di Eduard Spelterini, la natura sabbatica di Patrick Van Caeckenbergh e la numerosa serie di morti morenti di Althamer adombrano i pensieri del visitatore, introdotto a un percorso dalla spiritualità mistica. Un animismo occulto che fonde tradizioni, miraggi e religioni, assemblando ad esempio la struttura di una chiesa cattolica vietnamita d’epoca coloniale (Danh Vo) oppure rievocando gli ex voto del Santuario del Romituzzo, numi della sibaritica Sala 10.
In questo spazio, curato da Cindy Sherman, numerosi feticci della perversione (Bellmer) sono esposti come gemme oscure (List), come totem inattesi (Balka) dalla figurazione cagionevole (Rama) ma dall’anima torva (Linda Fregni Nagler) e dai trascorsi agitati (Norbert Ghisoland).
A partire dall’11esima sala, allestita nel buio, per far brillare i video-deliri di Ryan Trecartin, prevale la nostalgia astratta del presente. Il sistema illuminotecnico predilige i toni freddi per scandire i tre dipinti-bitmap del neomodernista Wade Guyton, con le contenzioni ottiche del pittore Albert Oehlen e con la simulazione digitalizzata di Simon Denny. Infine, nonostante il video fra interiora e interiorità di Yuri Ancarani, il percorso riserva in chiusura alcune visioni dal vicino passato tra Stan VanDerBeek, Bruce Nauman, Dieter Roth e l’intero spazio dedicato all’enorme spina di Walter De Maria.
Nelle sale del Padiglione Centrale, ai Giardini, la densità visuale aumenta. 56 artisti (tra Tacita Dean e Carl Andre, passando per Baruchello e Perrone) rendono l’uomo dei popoli oggetto di studio. Un punto di vista culturale che stabilisce struttura ed evoluzione delle varie società umane. Il Leone d’oro di questa edizione, Tino Sehgal, adatta coreografie e attori alla seconda sala, tra sculture di René Iché, raffinate proiezioni architettoniche di Walter Pichler e fantasie strutturali di Rudolf Steiner.
Il percorso, infine, si sussegue senza sosta e senza una direzione deduttiva, che dall’infinitamente piccolo porti all’universalmente conosciuto, mostrando i fasti delle tracce di un rito: tra i disegni di flora sintetica di Anna Zemánková; i dipinti di Hilma af Klint; le interpretazioni simboliche del destino di Augustin Lesage; i vaticini di Aleister Crowley; le colonne alchemiche di James Lee Byars e, in ultimo, i ritratti dipinti come miniature Mughal di uomini e donne religiosi di Imran Qureshi.
Ginevra Bria
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